Assad è un riformatore agli occhi della Clinton ma non del popolo siriano

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Assad è un riformatore agli occhi della Clinton ma non del popolo siriano

22 Aprile 2011

Molti membri del Congresso, di entrambi i partiti, che negli ultimi mesi hanno visitato la Siria hanno affermato di ritenerlo un riformatore. 

Hillary Clinton su Bashar al-Assad, 27 marzo.

Sono poche le cose dette da questa amministrazione nei suoi due anni che possano competere con questa per fallimento morale e incomprensibilità strategica.

Innanzitutto, è palesemente falsa. Si era sperato che il presidente Assad sarebbe stato un riformatore quando, un decennio fa, ereditò la dittatura di suo padre. Essendo un oculista che aveva studiato a Londra, gli venne riservato un trattamento completo alla Yuri Andropov: la supposizione che, essendo stato esposto ai modi occidentali, si era anch’egli occidentalizzato. Sbagliato. Assad ha guidato lo stesso tirannico stato di polizia alawita proprio come suo padre.

Bashar aveva fatto promesse di riforma durante la passeggera Primavera Araba del 2005. Le promesse non sono state mantenute. Nel corso della brutale repressione delle attuali proteste, la sua portavoce ha rinnovato le promesse di riforma. Poi Assad, comparendo mercoledì davanti al Parlamento, è stato scandalosamente sfrontato. Non ha fatto concessioni. Nessuna.

Secondo punto: l’affermazione di Hillary Clinton è moralmente ottusa. C’è gente che manifesta contro una dittatura che più volte apre il fuoco sul proprio stesso popolo, un regime che nel 1982 ha ucciso 20.000 persone a Hama e poi ha costruito sulle fosse comuni. Qui c’è gente follemente coraggiosa che chiede delle riforme, e il segretario di Stato americano dice al mondo intero che il mascalzone che ordina di sparare su persone innocenti è già un riformatore, avallando così di fatto la linea del partito Baath (“siamo tutti riformatori”, ha detto Assad al Parlamento) e indebolendo la causa dei manifestanti.

Terzo punto: è strategicamente incomprensibile. Capita talvolta di coprire un alleato repressivo per ragioni legate alla sicurezza nazionale degli Stati Uniti. Questo il motivo delle nostre tiepide parole sul Bahrein. Questo il motivo della nostra lenta risposta sull’Egitto. Ma ci sono rare volte in cui l’interesse strategico e l’imperativo morale coincidono completamente. È il caso della Siria, un mostruoso stato di polizia il cui regime lavora con costanza per ostacolare gli interessi americani nella regione.

Durante i giorni peggiori della guerra in Iraq, questo regime ha infiltrato terroristi nel paese per combattere le truppe americane e gli alleati iracheni. E gronda anche sangue libanese, essendo dietro all’uccisione di giornalisti indipendenti e di democratici, compreso l’ex primo ministro Rafiq al-Hariri. Quest’anno ha contribuito a rovesciare il governo filo-occidentale del figlio di Hariri, Saad, e ha posto il Libano sotto il controllo violentemente anti-occidentale di Hezbollah. La Siria è partner della Corea del Nord nella proliferazione nucleare. È un agente dell’Iran e il suo più stretto alleato arabo, cui fornisce uno sbocco sul Mediterraneo. Quelle due navi da guerra iraniane che a febbraio hanno attraversato il Canale di Suez hanno attraccato al porto siriano di Latakia, una penetrazione nel Mediterraneo cercata da molto tempo.

Eppure, ecco qua il segretario di Stato che copre il dittatore siriano nei confronti dell’opposizione. E non migliora le cose il fatto che, due giorni dopo, la Clinton abbia provato a tornare sui propri passi dicendo che stava semplicemente citando altri. Spazzatura. Della miriade di opinioni su Assad, ha scelto di citarne precisamente una: riformatore. Si tratta di un endorsement, non importa quanto poi ella voglia pretendere altrimenti.

E non si tratta solo delle parole, è la politica che c’è dietro. Questa delicatezza nei confronti di Assad fa tornare con costernazione alla mente la risposta del presidente Obama alle sommosse iraniane del 2009, durante le quali si dimostrò scandalosamente restio a sostenere i dimostranti, riaffermando più volte nel contempo la legittimità della brutale teocrazia che li reprimeva.

Perché? Perché Obama voleva rimanere “impegnato” con i mullah, in modo da poterli distogliere dalle loro armi nucleari. Sappiamo com’è andata a finire.

La stessa presunzione anima la sua politica nei confronti della Siria: mantenere buone relazioni con il regime in modo che Obama possa, a forza di moine, convincerlo a mettere da parte l’alleanza con l’Iran e il sostegno a Hezbollah.

Un altro fallimento completo. La Siria ha respinto con sprezzo le blandizie di Obama: le visite ossequiose del presidente del Comitato per le Relazioni estere del Senato John Kerry e il ritorno del primo ambasciatore statunitense a Damasco dall’uccisione di Hariri. La risposta di Assad? Un’alleanza ancor più stretta e ostentata con Hezbollah e con l’Iran.

Il nostro ambasciatore a Damasco dovrebbe pretendere di incontrare i dimostranti e visitare i feriti. In caso di rifiuto, dovrebbe essere richiamato a Washington. E piuttosto che “deplorare la violenza”, come ha fatto la Clinton nel suo passo indietro, dovremmo denunciarla con linguaggio efficace in ogni possibile luogo di dibattito, compreso il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.

Nessuno sta chiedendo un salvataggio in stile Libia. Solo dire la semplice verità. Se Kerry vuol rendersi ridicolo continuando a sostenere che Assad è un alfiere del cambiamento, beh, questo è un paese libero. Ma Hillary Clinton parla a nome della nazione.

© Washington Post
Traduzione Andrea Di Nino