Assunzioni, in azienda si guarda al breve periodo

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Assunzioni, in azienda si guarda al breve periodo

Assunzioni, in azienda si guarda al breve periodo

04 Aprile 2011

La manodopera non si assume a scatola chiusa. Soprattutto in tempo di crisi. Le imprese che hanno investito nel capitale umano, infatti, hanno preferito forme contrattuali meno vincolanti: rapporti a termine, collaborazioni (co.co.co. e/o lavoro a progetto) e altre forme temporanee di inserimento lavorativo. È quanto spiega il 2° Rapporto sulle Comunicazioni obbligatorie (Co) pubblicato dalla Uil relativo al periodo che va dal 2008 al I semestre del 2010.

Lo studio dice che in questo periodo sono stati avviati oltre 27 milioni di rapporti di lavoro nonostante il perdurare della crisi economica. In maggioranza, però, si è trattato di rapporti a termine (oltre 17,5 milioni).

E questo sembrerebbe denotare, nelle imprese, una preferenza a instaurare con la nuova manovalanza una sorta di «periodo di prova» più lungo rispetto a quello garantito dalla legge o dai contratti collettivi, prima di arrivare al rapporto stabile e definitivo dell’assunzione a tempo indeterminato (oltre 6 milioni nel periodo in esame).

I dati. Il Rapporto Uil spiega che nell’anno 2008 sono stati attivati quasi 13 milioni di rapporti di lavoro, nel 2009 oltre 9 milioni (con una flessione di oltre 3 milioni) e nel primo semestre 2010 quasi 5 milioni. Nel complesso (dal 2008 al 30 giugno 2010), dunque, i datori di lavoro hanno siglato circa 27,2 milioni di rapporti di lavoro: nel 22,9% dei casi si è trattato di contratti a tempo indeterminato, mentre per il restante 77,1% dei casi di rapporti non a tempo indeterminato, ossia di contratti di apprendistato (3,7%), a termine (64,4%), di collaborazioni (6,9%) e altre forme temporanee (1,9%).

Snobbato l’apprendistato. Un primo dato che viene in evidenza è il basso appeal che ha avuto il contratto di apprendistato. Un dato confermato, peraltro, anche dal recente Rapporto dell’Isfol (monitoraggio anno 2009). Infatti, il rapporto spiega che nell’anno 2009 si è registrato per la prima volta dal 1998, anno in cui si è avuta la prima riforma di questo contratto di lavoro, un numero di occupati inferiore a 600 mila unità (cioè 591.800 unità). Rispetto al 2008 la flessione è stata dell’8,4%, interrompendo un trend di crescita continuo che nel decennio 1998/2008 aveva visto aumentare progressivamente il ricorso a questa tipologia contrattuale fino a raggiungere un incremento dell’87,4% nel 2008 rispetto al 1998. Non essendo intervenute riforme negli anni in questione (2008/2009), diventa assai probabile allora che la disaffezione delle imprese all’apprendistato vada ricercata in altre ragioni. Magari proprio nella crisi che si accanisce sull’economia in questo stesso periodo, e che avrà giocoforza modificato le attitudini comportamentali delle aziende nel fare nuove assunzioni.

Una prova più lunga. Stando ai dati del Rapporto Uil, del 77,1% dei casi di instaurazione di rapporti a termine il 3,7% ha riguardato rapporti di apprendistato e il 64,6% rapporti puramente a termine.

Ciò che accomuna i dati è il fatto che in entrambi i casi si tratta di contratti a termine; ciò che li diversifica, invece, sono più aspetti:

1) la previsione nel contratto di apprendistato dell’obbligo aggiunto, a carico dell’azienda, di dare una formazione al lavoratore;

2) un termine prestabilito (dai ccnl) all’apprendistato (il professionalizzante, per esempio, arriva fino a sei anni);

3) il requisito dell’età del lavoratore ai fini dell’assunzione come apprendista (per il professionalizzante, ad esempio, è richiesta l’età tra 18 e 29 anni);

4) contributi minori e retribuzioni inferiori nel contratto di apprendistato (si versa tra l’1,5% e il 10% a seconda della dimensione dell’azienda, rispetto al 40% circa di un contratto a termine).

Il confronto dei due tipi di contratti evidenzia l’apprendistato come una soluzione meno onerosa per l’azienda, ma con una durata più lunga (prefissata) e con obblighi aggiunti (anche burocratici) legati alla formazione del lavoratore; mentre il rapporto a termine come una soluzione più onerosa per l’azienda, ma più libera nella durata e negli obblighi aggiuntivi.

Allora, se le aziende hanno preferito ricorrere al contratto a termine (64,6%) piuttosto che a quello di apprendistato (3,7% dei casi), accollandosi pure più oneri ma per un tempo minore, la ragione deve attribuirsi non tanto alla «natura» delle due assunzioni (natura che, in definitiva, è la stessa: infatti in entrambi i casi si tratta di rapporti subordinati o dipendenti), quanto probabilmente alla necessità di evitare investimenti di lunga durata. Ed infatti è un investimento di lunga durata quello implicato dal contratto di apprendistato; mentre il contratto a termine lascia maggiori margini di manovra, all’atto dell’assunzione, circa la durata del rapporto di lavoro.

In definitiva, dunque, la crisi sembra avere modificato le attitudini delle imprese nel fare le nuove assunzioni: si guarda al breve periodo cercando di evitare investimenti di lunga durata.

E si sfrutta in misura maggiore la flessibilità in entrata, perché non esiste quella in uscita che, in tempi di crisi, può garantire la sopravvivenza delle aziende e degli stessi (almeno in parte) posti di lavoro. In altre parole, piuttosto che rischiare in un’assunzione più lunga anche se meno costosa, le imprese si accontentano di sopportare maggiori costi nell’immediato avendo garantita, però, la possibilità di effettuare veri e propri investimenti di capitale umano, cioè lavoratori sufficientemente "provati" sul campo (in azienda). Una volta provati, poi, la soluzione sembra unica: l’assunzione definitiva, cioè a tempo indeterminato, come spiega l’alto numero di casi (il 23%) indicato dal Rapporto della Uil.

(Tratto da ItaliaOggi7)