Attacco suicida all’ambasciata indiana. Per i responsabili rivolgersi al Pakistan

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Attacco suicida all’ambasciata indiana. Per i responsabili rivolgersi al Pakistan

08 Luglio 2008

"Il ministro dell’Interno è convinto che questo attacco sia stato effettuato in coordinazione e consultazione con un servizio di intelligence attivo nella regione" . Così recita un comunicato emesso dal ministero degli Interni afgano dopo l’attentato di ieri mattina a Kabul contro l’ambasciata indiana. Quarantuno morti, tra cui due pezzi da novanta: l’addetto militare ed il consigliere politico e per la comunicazione dell’ambasciatore. Un bel colpo, non c’è che dire. Talmente fatto bene da giustificare il sospetto che il comunicato, addossando la responsabilità dell’attentato ad un servizio di intelligence attivo nella regione, per chi non lo avesse capito quello pakistano, l’ISI, ci abbia in realtà azzeccato. O che se non ci abbia azzeccato ci sia andato molto vicino. 

Se così fosse, sarebbe solo un episodio, il più grave e spettacolare, dell’eterna guerra tra India e Pakistan. I due paesi non si combattono solo nel Kashmir. Lo fanno, in modo più o meno scoperto, anche in Afghanistan. E da tempo. Al Pakistan, il governo Karzai non piace. Troppo tagiko e di conseguenza troppo filo-indiano. Anche se il presidente è un pashtun, e molti pashtun ricoprono alti incarichi ministeriali – compreso quello della Difesa – i tagiki continuano ad essere la componente dominante. Sono forti dentro l’ANA (Afghan National Army) e nella polizia. Li chiamano i panshiri, a sottolineare la loro provenienza dall’omonima ala della resistenza antisovietica. Nemici giurati del Pakistan e dei suoi clienti – Hekmatyar prima, i talebani, dopo – sono stati sempre loro a formare il nocciolo duro dell’Alleanza del Nord, finanziata e appoggiata (anche) dall’India, e a tornare a Kabul sfruttando le voragini aperte dai B-52 nelle difese talebane. 

La storia è vecchia dunque. A Kabul il Pakistan vuole un regime amico, cioè pashtun, a garanzia di una direttrice sicura per i propri traffici con le repubbliche dell’Asia Centrale e di una maggiore profondità strategica nei confronti del gigante indiano. Una volta cacciati i sovietici dall’Afghanistan, Islamabad si è inventata i talebani – idea pachistana ma soldi sauditi – e li ha portati a Kabul per scacciarne i litigiosi ed inaffidabili mujaheddin. Il sogno degli estremisti pachistani, ma anche della migliore comunità strategica di Islamabad, si è così realizzato. I primi vedevano nell’Afghanistan talebana il secondo tassello, dopo il Pakistan, del califfato in Asia Meridionale; i secondi, la tanto auspicata continuità territoriale in caso di conflitto con l’India. Ragioni diverse, obiettivo comune. Come è andata a finire, ormai lo sappiamo: l’11 settembre, il cambiamento di regime, Enduring Freedom, ISAF e le pressioni americane che hanno costretto il Pakistan ad entrare nella coalizione globale contro il terrorismo e a mettere nel cassetto, almeno per un po’ di tempo, i suoi veri obiettivi. Dopo di allora è stato tutto un barcamenarsi tra l’ambigua alleanza con Washington e l’interesse a contrastare un regime amico dell’India a Kabul, interesse che certe frange degli ambienti di sicurezza continuavano a coltivare in barba alla posizione ufficiale di Musharraf. Per cui, se da una parte si cerca di dar seguito alle richieste di Washington, mostrando il pungo duro contro Al Qaeda, dall’altra si foraggiano i talebani e si fa di tutto per destabilizzare l’Afghanistan. Alla fine ne è nato un pasticcio, incommestibile soprattutto per Karzai e per la missione ISAF. 

Quanto Musharraf sia consapevolmente in controllo di questa politica è difficile dirlo, certo è che il presidente pakistano è una delle intelligenze strategiche di cui sopra che tanto contribuirono alla creazione del movimento talebano. Probabilmente Musharraf è rimasto schiacciato in questo meccanismo e fa quello che può. L’autunno scorso ha lanciato una grande campagna militare contro le FATA (Federally Administered Tribal Areas) e la NWFP (North-West Frontier Province), le due aree tribali al confine con l’Afghanistan infestate da talebani e qaedisti, per riportarne un minimo di ordine e autorità governativa. L’esito è stata una figuraccia militare e l’accelerazione del processo di unificazione di tutti miliziani, guerriglieri e predoni dell’area in un unico movimento, Tehrik-e-Taliban (il Movimento dei Talebani in Pakistan) – sotto la leadership della primula russa Beitullah Mehsud. Musharraf è stato allora costretto a firmare con questi signori l’ennesimo accordo per il ritiro delle proprie truppe dalla provincia di Swat, nella NWFP, e ad affidarne la sicurezza ai miliziani di Tehrik-e-Taliban. Adesso il Movimento dei Talebani in Pakistan controlla il Waziristan del Nord e del Sud e gran parte della NWFP. Nonostante le accese proteste dell’amministrazione Bush, ancora due settimane fa il ministro pachistano per le NWFP, Bashir Bilor, ha confermato che l’accordo resta in piedi. Analogo concetto è stato ribadito dallo stesso Meshud – in un’affollatissima conferenza stampa in una sua roccaforte nel Waziristan del Sud – il quale ha aggiunto che il jihad contro americani e NATO in  Afghanistan va avanti. 

Con un retrovia sicuro in Pakistan, i talebani possono andare e venire in Afghanistan, come del resto facevano i mujaheddin durante la guerra contro l’URSS. E il Pakistan glissa, come glissava allora. Non è cambiato niente, verrebbe da dire. Documenti riservati americani, citati la scorsa settimana dall’”Observer”, confermano questa realtà e, soprattutto, che i talebani godono del supporto degli apparati di informazione e sicurezza di Islamabad e del Corpo delle Guardie di Frontiera. E così la situazione sul confine tra Pakistan e Afghanistan è sempre più incandescente. L’11 giugno scorso almeno dieci soldati appartenenti ai Corpi di Frontiera sono stati uccisi in un raid dell’aviazione americana. All’inizio si era parlato di errore, ma secondo diverse fonti si sarebbe trattato invece di un raid a tutti gli effetti. Ci sarebbe anche una ricostruzione: truppe afgane avrebbero attaccato un posto di blocco pachistano nella regione tribale di Mohmand, area contesa dai due paesi, chiamando subito dopo in supporto caccia della coalizione.  Un bombardamento voluto, quindi. 

Del resto Karzai aveva già minacciato Islamabad rivendicando il diritto a oltrepassare il confine per dare la caccia ai terroristi, in nome della "legittima difesa". Il debole presidente fa la voce grossa, ma in realtà è un piccolo vaso di coccio tra vasi di ferro. Sotto pressione da tutte le parti si è ritrovato a combattere una guerra più grande di lui. Nel suo governo sono in molti a non amarlo, i talebani lo incalzano e la stessa ISAF gli imputa di aver fatto poco per combattere la dilagante corruzione nel paese. Ora ci si è messo pure l’attentato all’ambasciata indiana e chissà adesso quale sarà la reazione di Nuova Delhi. L’India è nel “patto di sindacato” tra grandi potenze che sostiene Karzai ed è un importante partner per la ricostruzione dell’Afghanistan. L’attentato all’ambasciata potrebbe essere pertanto un segnale di avvertimento indirizzato all’India, affinché cessi di occuparsi troppo a fondo di cose afgane. Gli addetti militari di un’ambasciata non si ammazzano mai per caso.