Aumentano i disoccupati perché gli italiani ormai rifiutano certi lavori
27 Settembre 2010
Perché dei dati sull’occupazione, rilevati periodicamente dall’Istat, si utilizzano soltanto quelli che fanno comodo ad una certa rappresentazione della realtà? A sentire come i tg orientati a sinistra hanno commentato le ultime rilevazioni, nei giorni scorsi, abbiamo avuto l’impressione di non vivere in Italia, che è pur sempre la quinta potenza industriale del mondo (e la seconda in Europa), ma in un Paese dell’Africa sub-sahariana. Certo, la situazione è seria: nel secondo semestre dell’anno il tasso di disoccupazione è arrivato all’8,5% (il dato destagionalizzato è appena un po’ più basso), marcando un punto percentuale d’incremento rispetto allo stesso periodo del 2009. In valore assoluto 195mila occupati in meno derivanti dalla somma algebrica tra 366mila lavoratori italiani in meno e 171mila stranieri in più. Questi ultimi – si stima – arriveranno a 181mila entro l’anno.
E’ qui che si pone una prima domanda: come è possibile che la disoccupazione si qualifichi sempre più con i colori nazionali, mentre la nuova occupazione (ormai il trend dura da anni) interessi la manodopera straniera ? E non si tratta solo di lavoro stagionale, ma di impieghi regolari e stabili anche in settori manifatturieri. A prova del fatto che il mercato del lavoro ha ancora una sua dinamica e che tante occasioni di lavoro sono rifiutate dagli italiani. Vi sono stime, rese note in questi giorni, che parlano di 50mila domande di lavoro non soddisfatte dall’offerta. A leggere altri dati dell’Istat (che non vengono solitamente ricordate) si trova una spiegazione ufficiale a tale fenomeno. L’Istituto di statistica calcola pure il numero dei ‘posti vacanti’ ovvero dei posti di lavoro retribuiti nuovi, liberi o in procinto di diventarlo. Ebbene, sempre nel secondo trimestre, il tasso dei ‘posti vacanti’ sul totale dell’industria e dei servizi è pari allo 0,7%, in crescita dello 0,2% rispetto al medesimo periodo del 2009. Segnatamente: il tasso citato è pari allo 0,5% nell’industria (+0,1%), allo 0,8% nei servizi (+0,2%).
Esiste ed è grave il problema della disoccupazione giovanile: il 27,9% tra i 15 e i 24 anni. E’ un fenomeno che presenta andamenti analoghi (circa il 30%, in quella coorte, non ha un lavoro) in tutti i Paesi dell’Ocse. L’ultimo rapporto del Cnel ha messo denunciato aspetti ancora più preoccupanti: il 55% dei disoccupati ha meno di 35 anni; la classe di età maggioritaria tra le persone senza lavoro rimane quella compresa tra i 25 e i 34 anni. Si tratta di un dato ben più significativo di quello riguardante le persone comprese tra i 15 e i 24 anni, che ancora stanno, di solito, completando il ciclo formativo.
Il fatto che, soprattutto nel Mezzogiorno, molti giovani siano occupati nell’economia sommersa non concorre certo a risolvere una "questione giovanile" ormai di carattere strutturale. Per la sinistra, a tale situazione di difficoltà si dovrebbe rispondere con la proibizione delle norme sul cosiddetto "precariato". Come se, dichiarando guerra ai rapporti flessibili, si potesse abolire anche la crisi; come se i posti di lavoro non fossero un prodotto dello sviluppo, anzichè degli obblighi imposti dal legislatore ai datori di lavoro. Ciò che l’economia ha tolto potrà essere restituito solo dall’economia. Ma in qualche modo il collegamento tra disoccupazione giovanile, lavoro rifiutato, offerta di lavoro mancante, domanda disattesa e posti vacanti andrebbe meglio approfondito.