Badenheim 1939, il silenzio che precede l’orrore
06 Ottobre 2007
Da quando i cancelli di Auschwitz vennero sfondati dall’Armata Rossa, la letteratura mondiale si è trovata a fare i conti con il problema della rappresentazione del male assoluto. Come parlare dell’Olocausto? Cosa scrivere di Auschwitz ? Molti scelsero la via del silenzio. Altri, al contrario, vollero incamminarsi sulla strada della testimonianza: a guidarli, la convinzione che nulla di quanto avevano vissuto potesse essere dimenticato. Ed è grazie a questi coraggiosi che anno dopo anno la letteratura si è riempita di romanzi, diari e testimonianze sull’abisso nel quale era sprofondata l’Europa tra il 1939 e il 1945. In prima linea, Primo Levi e poi ancora Elie Wiesel, premio Nobel per la pace 1986, che ha raccontato la propria detenzione in “La notte”. O Imre Kertész, altro Nobel, autore di “Essere senza destino”. Fino a quella generazione che Auschwitz non l’ha vissuto ma ha comunque deciso di raccontarlo, a partire da David Grossman con “Vedi alla voce: amore”.
Ma c’è un autore che Auschwitz non lo nomina mai – così come non parla di nazismo, SS, campi di sterminio e leggi razziali –, eppure riesce a far sentire tutta la violenta drammaticità di quel luogo e di quel momento con una forza dirompente. E’ Aharon Appelfeld, uno dei maggiori scrittori israeliani viventi, del quale Guanda ha recentemente pubblicato un romanzo breve, “Badenheim 1939”: scritto in ebraico nel 1978, il libro uscì in inglese nel 1980 per poi comparire in Italia da Mondadori. Appelfeld tornò sulle scene italiane con altre opere, ma per rivedere in libreria il suo romanzo d’esordio sono dovuti passare quasi vent’anni.
Aharon Appelfeld è nato il Bucovina nel 1932, sette anni prima dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale: presto i nazisti gli uccisero la madre, per poi spedirlo con il padre in un campo di concentramento in Ucraina. La tragedia segna l’inizio di una vita straordinaria: è il 1940 quando il futuro scrittore fugge dal campo, trascorrendo tre anni in fuga attraverso le foreste dell’est Europa. Come cibo, i prodotti del bosco. Nel 1943 il giovane Aharon viene raccolto dall’Armata Rossa, dove svolge servizio di cuoco nelle cucine da campo. Finita la guerra, senza madre né padre, finisce a Napoli: di lì prenderà il largo per le terre della Palestina, che due anni dopo si chiameranno Israele. Persa l’infanzia, Appelfeld ha costruito qui il suo futuro, ricominciando da zero: sarà veterano dell’esercito, padre di tre figli, insegnante di letteratura ebraica (una lingua che impara tardi) all’Università Ben Gurion di Be’er Sheva’. E scrittore, pubblicato e celebrato in tutto il mondo.
“Badenheim 1939” esce alla fine degli anni Settanta: in molti hanno già scritto di Auschwitz. Il mondo conosce ogni aspetto dell’Olocausto, dimenticare sarà pressoché impossibile. Ma Appelfeld sente che manca qualcosa: come è possibile, si chiede, che gli ebrei siano precipitati in questo baratro? Che nessuno abbia posto resistenza, che il mondo sia rimasto a guardare? Non sentivano, gli ebrei del 1939, quello che stava per accadere? Queste domande, così come i segni di un’imminente catastrofe, riempiono le pagine di “Badenheim 1939”: i campi di sterminio non vengono mai nominati, dicevamo, ma in pochi romanzi sono così presenti, una presenza discreta e allo stesso tempo soffocante. Simboli e metafore riempiono ogni riga, e sono questi presagi a far provare al lettore almeno una piccola parte di quello che dovevano sentire gli ebrei di fronte al Male assoluto. Quella di Aharon Appelfeld è una fotografia degli ebrei sull’orlo del baratro.
Badenheim è una località di villeggiatura sui monti austriaci: aria pura, case bianche, alberghi di lusso. Ogni anno una nutrita schiera di villeggianti viene qui in vacanza dalla città: l’attrazione principale è la rassegna artistico-musicale di un eccentrico impresario, il dottor Pappenheim, che passa la vita in giro per l’Europa a caccia di talenti da far esibire di fronte al pubblico del proprio festival. Per qualche mese, durante la bella stagione, la cittadina austriaca diventa un microcosmo che rispecchia la società ebraica del tempo: artisti, musicisti, professori, rabbini, negozianti, camerieri, commercianti, studenti, ricconi e perfino prostitute. La primavera del 1939 segna l’inizio di una stagione apparentemente uguale alle altre: le ombre del bosco si ritirano, la luce torna ad invadere la città, i villeggianti giungono a Badenheim preceduti da Pappenheim, che mette a punto gli ultimi dettagli per la rassegna artistica annuale.
Ben presto, però, iniziano le stranezze. Martin, il farmacista, riceve una visita da parte dell’Ispettore del Dipartimento sanitario: “L’ispettore estrasse il metro pieghevole e si mise a prendere le misure. Se ne andò senza chiedere scusa né ringraziare”. Di qui in poi, il Dipartimento diventerà una costante: “L’indomani fu comunicato ufficialmente che le competenze del dipartimento sanitario erano state ampliate, e includevano l’autorizzazione a condurre indagini autonome”. I funzionari sanitari diventano una presenza incombente nelle strade, mentre le porte della città vengono gradatamente chiuse: impossibile uscire, mentre molti saranno gli accessi da parte di altri condannati. Badenheim diventa un ghetto: gli ebrei sono costretti a registrarsi presso il Dipartimento, un ufficio pieno di depliant turistici della Polonia dove tutti saranno trasferiti al termine della vacanza.
Qualcuno, ovviamente, si chiede cosa stia succedendo. Ma le rassicurazioni di Pappenheim, ottimista fino all’ultimo (fin quando, salito su un treno evidentemente diretto ai campi polacchi, dirà: “Se i vagoni sono così sporchi, significa che non si andrà lontano”), tengono a bada la cittadina. Non pochi registrano entusiasticamente, sognando un ritorno nella patria originaria dove tutto sarà più bello e semplice. Chi ha dei dubbi, cerca rassicurazioni negli altri.
Anche se un immaginario filo spinato cinge d’assedio la città, nuovi ebrei giungono a Badenheim e il cibo (inizialmente opulento) scarseggia sempre più, nessuno pensa però di andare verso la morte.
Questa, sembra dirci Appelfeld, era la società ebraica del 1939: quello a cui andavano incontro era così impensabile, grande e mostruoso, che qualsiasi altra giustificazione, perfino la più assurda, suonava reale. E molti, probabilmente, si saranno illuminati solo all’interno di una camera a gas. L’opera dello scrittore, fatta di uno stile asciutto ed essenziale (e solo così poteva essere), mette in relazione – secondo il critico David C. Jacobson – “la vita quotidiana delle vittime prima della guerra, e quella dei lettori dopo la guerra, con l’Olocausto”, facendo emergere “la relazione tra l’assurdo e il quotidiano e quella tra l’assurdità e la speranza”. I confini sono molto stretti, sembra dirci Appelfeld, ma credere alla speranza è molto più semplice.
“Una locomotiva, una locomotiva che trainava quattro laidi vagoni merci, spuntò dalle colline e si fermò in stazione, Così repentina fu quell’apparizione che parve essere sbucata fuori da un pozzo. ‘Dentro!’ ordinarono delle voci. La gente si disperse all’interno”. Anche in quei vagoni, molti continueranno a pensare ad un futuro radioso in Polonia, la terra degli avi. Oggi invece, dopo l’Olocausto e conflitti pluridecennali per la difesa del proprio Stato, gli ebrei d’Israele sono più consapevoli delle minacce che pendono sul loro capo. “Badenheim 1939”, nel 2007, sembra più un monito a quell’Europa che crede ancora troppo nella speranza.