Bambini, cooperanti e soldati: tutte le vittime dei Taliban

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Bambini, cooperanti e soldati: tutte le vittime dei Taliban

21 Ottobre 2008

La situazione in Afghanistan si sta deteriorando. In ogni settore e non più solo nelle tradizionali roccaforti talebane del sud. L’assassinio della cooperante britannica Gayle Williams, l’attacco alle truppe tedesche che ha lasciato sul campo due militari e cinque bambini, oltre agli attacchi sferrati nei giorni scorsi contro i militari del contingente italiano – quello di sabato ad opera di un kamikaze nei pressi dell’aeroporto di Herat e l’imboscata di domenica ad un convoglio diretto verso l’avamposto di Bala Morghab – sono solo gli ultimi episodi di una catena che fa del 2008 l’anno peggiore per ISAF ed Enduring Freedom.

Il ministro La Russa si è detto molto preoccupato e ha parlato senza mezzi termini di innalzamento di livello dello scontro. Altrettanta preoccupazione ha espresso il ministro degli esteri Frattini pur escludendo un aumento di truppe per rafforzare il nostro contingente di stanza ad Herat: "Il nostro contingente è già il quarto in assoluto – ha detto Frattini – abbiamo dato di recente un contributo importante con i quattro Tornado, vogliamo continuare a dare il buon esempio". Il ministro ha fatto anche balenare l’ipotesi di trattative giudizione quanto ufficiose con i Taliban: "Si deve trattate come hanno fatto gli egiziani con Hamas, dialogare per garantire un cessate il fuoco ma senza legittimarli, sarebbe un errore, i talebani non vogliono certo sostenere Karzai o la coalizione occidentale".

In questa situazione hanno buon gioco i talebanologi ufficiali alla Ahmed Rashid a dire che tutto è sbagliato, tutto è da rifare, e che i militari italiani, ed ISAF in generale, stanno fallendo. Il giornalista pachistano – uno dei massimi conoscitori del fenomeno talebano e autore, tra l’altro, del best-seller “Taliban: Militant Islam, Oil and Fundamentalism in Central Asia” – intervistato dal “Corrierone” ha affermato che gli italiani esercitano uno scarso controllo sul territorio e stanno poco tra la gente. Sarebbe questa la causa del rafforzamento di bande di malviventi e trafficanti e, dunque, indirettamente, la causa degli attacchi. 

Frattini ha risposto con garbo, ma con fermezza, anche a Rashid. Qui non vogliamo entrare nel merito, ma solo aggiungere alcune osservazioni di carattere strategico e militare. La situazione in Afghanistan è peggiorata. Su questo siamo tutti d’accordo. Ma non si può dire che ISAF non controlli il territorio. Anzi, il suo sforzo da questo punto di vista è molto maggiore di quanto non lo fosse nel 2003 e 2004, quando la situazione nel Paese era molto più tranquilla di adesso.

Il dato semmai è un altro ossia che il deterioramento c’è stato soprattutto da quando i talebani hanno cambiato strategia e si sono riuniti ai fratelli pachistani. Da tempo non vanno più a cercare le truppe di ISAF in campo aperto, come nel 2005 e 2006 e nei primi mesi del 2007, ma si limitano ad usare il classico “mordi e fuggi”: imboscate, trappole esplosive, kamikaze ed attacchi alle linee di rifornimento. Una strategia che ha portato ad ottimi risultati (per i talebani) e che è stata enormemente rafforzata, ecco il secondo aspetto, dalla costituzione ufficiale, nel dicembre 2007, di Tehrik-e-Taliban, il movimento dei Talebani in Pakistan. Questo gruppo ha radunato sotto la leadership di Beitullah Meshud tutti i guerriglieri, predoni e simili che operano nelle FATA (Federally Administered Tribal Areas) e nella NWFP (North-West Frontier Province) – riunificandosi con i talebani afgani.

Il campo di battaglia pertanto oggi è uno solo e dall’Afghanistan si estende alle aree tribali pachistane dove, nonostante gli sconfinamenti degli americani degli ultimi mesi, ferve quell’infrastruttura – campi di addestramento, depositi, centri di comando – che alimenta in modo permanente le azioni della guerriglia garantendo al contempo riparo da eventuali rappresaglie. Esattamente come accadeva al tempo dell’occupazione sovietica dell’Afghanistan quando i mujaheddin potevano fare indisturbati i pendolari del  jihad tra il Pakistan e l’Afghanistan.  E’ una storia vecchia.

Il Governo pachistano fa poco, o quello che può, per neutralizzare l’infrastruttura terrorista permettendo, di fatto, a chi combatte in Afghanistan di avere nelle aree di confine pachistane un santuario sicuro. Dal canto loro americani e ISAF possono fare ancora meno. Per un semplice motivo: il Pakistan non si può invadere. ISAF ed Enduring Freedom si limitano pertanto a giocare la carta di raid aerei chirurgici o delle operazioni coperte ma non possono fare di più. ISAF non sta fallendo, ma non può neanche vincere. Almeno finché resterà in piedi questo diabolico inghippo strategico per cui la soluzione del problema afgano va trovata in Pakistan. 

Ci sarebbero tuttavia delle congiunture che, se si realizzassero, potrebbero portare sicuramente dei benefici e risollevare le sorti del conflitto. La prima sarebbe un’eventuale spaccatura nella guerriglia. Da che è mondo, Sun Tzu insegna, uno dei presupposti per la vittoria è privare l’avversario del sostegno dei suoi alleati. Dividerlo, in buona sostanza. Le guerriglie non sono mai un monolite. Tanto più in Afghanistan.

Durante l’occupazione sovietica, le anime dei mujaheddin erano almeno due: quella di Massud, “panshira”, e quella di Hekmatyar, pashtun. Cacciati i sovietici, e caduto Najibullah, queste due anime si sono fatte guerra fino ad auto-distruggersi e ad aprire la strada di Kabul ai talebani. Oggi, paradossalmente, la situazione è ancor più frastagliata. Sotto l’etichetta generica “talebani” si nascondono più realtà. C’è quella autenticamente talebana,  di etnia pashtun e ascendenza religiosa deobandi, ma poi c’è l’ala dell’Hezb e-Islami dello stesso Hekmatyar, nemico giurato dei talebani dopo che nel 1993 e 1994 fu scaricato dall’ISI che gli preferì come “cliente” proprio i talebani, il network di “famiglia” Haqqani (dal nome del vecchio comandante dello jihad antisovietico Jalaluddin Haqqani che lo ha costituito, oggi comandato soprattutto dal figlio Sirajuddin). E ancora le tante realtà autonome guidate da ras locali che trafficano e si danno ad attività criminali, e che non accettano il controllo del territorio da parte di un’autorità terza: sia essa il governo centrale o ISAF.

Il buon Karzai, lui stesso figlio di queste divisioni, sa come vanno le cose in Afghanistan e non ci sarebbe da stupirsi se, dopo gli ammiccamenti delle settimane scorse, avesse veramente avviato delle trattative segrete con il Mullah Omar. Del resto la strategia di inserirsi tra le fila della guerriglia, per dividerla, è già stata usata dagli americani in Iraq con i baathisti dei Consigli del Risveglio. Se in Iraq ha dato buoni frutti, perché non provare anche in Afghanistan?

La seconda congiuntura che potrebbe favorire lo sforzo di ISAF sarebbe un rasserenamento delle relazioni tra India e Pakistan. Anzi, tale eventualità costituirebbe un vero e proprio salto di qualità. La cronica percezione d’inferiorità nei confronti dell’India è la principale ragione che ha portato Islamabad a “creare” i talebani, spingendoli a prendere il potere a Kabul nel 1996 e a sostenerli.

La strategia pachistana non è cambiata neanche dopo l’11 settembre e la rimozione del regime talebano. Finché ci sarà il conflitto con l’India, e Islamabad si sentirà inferiore rispetto al potente vicino, la necessità di ottenere un’estensione della propria profondità strategica a nord – creando un unico sistema di continuità territoriale e geopolitica con l’Afghanistan, resterà tale.

Non c’è nulla di religioso, ideologico, o altro, nel sostegno pachistano ai talebani, ma solo un forte interesse strategico. Non si tratta di qualche settore deviato e islamista dell’ISI, come comunemente si pensa, che appoggia i fratelli talebani in funzione antiamericana ed antioccidentale (anche perché con tutte le purghe che ci sono state il problema avrebbe dovuto già essere risolto) ma della forma mentis di una laedership politico-militare che da 20 anni vede in un regime amico a Kabul la migliore garanzia per attutire la propria percezione di insicurezza rispetto al gigante indiano. Se un giorno questa percezione dovesse cambiare, per effetto, appunto, di un cambio di clima politico con l’India, probabilmente anche il problema talebano potrebbe trovare una miracolosa soluzione. Ma fino ad allora le opzioni per NATO ed americani continueranno a restare limitate.