Bambocciona io? E allora come la mettiamo con i “figli boomerang”?
25 Gennaio 2010
“Bambocciona”? A chi? Tra tutte le categorie in cui si possono far rientrare gli under 30, questa è sicuramente quella che mi sta più stretta. E non perché voglia elogiare i miei meriti e le mie virtù ma perché, leggendo gli editoriali di questi giorni, quello che salta all’occhio è che è facile etichettare una generazione ed è altrettanto facile sorvolare sulle cause che hanno portato a certi risultati. Come accade ormai periodicamente – si torna a parlare della famigerata questione dei figli che restano tra le dorate mura domestiche, grazie alle cure di babbo e mamma, ben oltre la maggiore età. A (ri)tirare fuori la questione è stata la provocazione del ministro Renato Brunetta di obbligare per legge le famiglie a spedire fuori casa i figli al compimento dei 18 anni. Il problema è vecchio e, siamo d’accordo, col passare del tempo la situazione nel Bel Paese è peggiorata, non solo perché l’Italia si ritrova con una quota spropositata di giovani e meno giovani che “non se ne vogliono andare”, ma anche perché il mercato del lavoro è del tutto cambiato, non ne parliamo dopo il triennio nero 2007-2009.
Ma mi sento in dovere di alzare la voce a nome di chi – cresciuto a suon di “chi dorme non piglia pesci” – a 20 anni ha fatto le valigie e ha deciso di affrontare “il mondo esterno” a più di 500 chilometri dal nido domestico; di chi ha iniziato a fare i conti con affitto da pagare e frigoriferi da riempire, il tutto continuando a credere ciecamente in un futuro e in dei progetti da difendere e realizzare, e accettando con determinazione la famosa sfida contro la “precarietà”. Di chi, insomma, ha tentato di diventare un individuo completo e non di restare solo un “fardello” per la società.
Sì, dico tentato, perché c’è anche chi ha avuto il coraggio di farsi strada da solo ma, arrivato a un certo punto del percorso, ha dovuto fare marcia indietro perché si è ritrovato a corto di mezzi per poter vivere dignitosamente. Si tratta di un fenomeno di portata mondiale: negli Stati Uniti già da alcuni anni si parla di “figli-boomerang” e – quel che è peggio – la tendenza è in forte aumento anche in Canada e in Spagna. Il fenomeno, come mette in luce uno studio condotto dalla Klaus Davi & Co., è subito una netta accellerazione: nel 2003 circa 16 milioni di famiglie avevano almeno un figlio over 18 che viveva a casa, il 7 per cento in più rispetto al 1995, il 14 per cento in più rispetto al 1985. Oggi, stimano gli analisti, negli Usa 18 milioni di “giovani-adulti” fra i 20 e i 34 anni vivono con i genitori. Colpa degli affitti che crescono e degli stipendi che calano, dei gravosissimi debiti contratti per pagarsi gli studi e dell’ ondata di licenziamenti seguita al boom della new economy.
Tutti laureati e iper-specializzati, i “ragazzi boomerang” vengono soprattutto dalla middle class. Abituati ad un tenore di vita borghese, da soli fanno fatica a mantenere alti gli standard, e preferiscono tornare a casa. Anche se hanno un lavoro. Persino la gioventù inglese – da sempre tendente all’indipendenza – è afflitta dal ‘nuovo morbo’, sconosciuto fino ad ora che, qualora abbiano lasciato la casa paterna per studiare, al termine del corso di studi, li riporta dritti dritti a casa di mamma e papà. Non va meglio ai giovani in cerca di lavoro: anche se l’occupazione giovanile è aumentata, in Inghilterra, del 15% rispetto al dicembre 2008, i “boomerang kids” sono attualmente in aumento.
Ecco, di queste “varianti”, rispetto al più classico esempio del “bamboccione”, si parla raramente, così come non si valuta attentamente il substrato che rischia di condurre al fallimento una generazione: un sistema della istruzione spesso troppo generoso che illude i giovani e ne innalza il livello di aspirazione a fronte di un mercato del lavoro molto spesso iniquo, che non riconosce merito e competenze; una realtà immobiliare con un mercato degli affitti e delle vendite totalmente fuori controllo; oltre che alla, spesso manchevole, trasmissione genitoriale di un sistema di valori che dovrebbe permettere la graduale acquisizione della tanto sbandierata “autonomia”. Dobbiamo prendere atto che la nostra cultura familiare, specchio di quella collettiva, è spesso molto protettiva e indulgente, in un certo senso “assistenzialista” verso le giovani generazioni. A fronte di questo quadretto, tutt’altro che consolante, la lotta dei “diversamente bambocci” continua. Forse bisognerebbe prenderne atto con un po’ più di coraggio.