La Storia prima o poi presenta il conto. Chi divide Paesi unitari (come la Germania) prima o poi è condannato ad assistere alla caduta dei muri e alla riunificazione. E chi inventa Stati artificiali (come l’Unione Sovietica, la Cecoslovacchia o la Iugoslavia) prima o poi è destinato a vedere la loro disaggregazione. Nel caso della Iugoslavia l’ultimo atto della disgregazione si chiama Kosovo. Strana implosione, quella dell’ex repubblica federativa popolare socialista titina: sembra quasi regolata da una singolare legge matematica per cui i problemi aumentano in maniera esponenziale con il diminuire della latitudine.
Poche difficoltà per la Slovenia, già entrata nella NATO e nell’Unione Europea e già passata addirittura attraverso la storica esperienza della presidenza di turno della UE. Qualche problema in più per la Croazia, che tuttavia ha già un piede nella NATO e vede sempre più vicina anche la membership europea. I problemi aumentano man mano che ci spostiamo verso sud, con una Bosnia sempre divisa fra entità e sottoentità etniche e religiose, con una Serbia in affannoso cammino verso l’Europa, con un Montenegro di fresca e sofferta indipendenza e con una Macedonia che ancora non riesce a far accettare dal suo stizzoso vicino neanche il proprio nome.
Ma i problemi del Kosovo superano di gran lunga, per quantità e qualità, tutti gli altri. La comunità internazionale ha fatto di tutto per non risolvere l’enigma kosovaro, ed è riuscita perfettamente nell’intento. La NATO ha bombardato Serbia e Kosovo senza un chiaro mandato dell’ONU, l’OSCE non ha saputo dare risposte concrete a nessuno perché i principi fondamentali cui si ispira (autodeterminazione dei popoli e intangibilità delle frontiere) sono in netta contrapposizione fra di loro, l’Unione Europea non ha saputo parlare con una voce sola delegando ai singoli Paesi membri la facoltà di riconoscere il nuovo Stato e infine l’ONU, incapace di trovare un accordo in ambito Consiglio di Sicurezza, prima ha emanato una risoluzione ambigua (la 1244 che accetta l’integrità territoriale serba ben sapendo che ciò era una promessa impossibile da mantenere) e poi ha amministrato il Kosovo per quasi un decennio senza risolvere nulla. L’Italia, da parte sua, aveva sostenuto una linea ‘all’italiana’: “Siamo per una soluzione condivisa da tutti”, dimenticando che la soluzione condivisa da tutti non poteva esistere. O forse sapendolo benissimo, il che è peggio.
Alla fine i Kosovari (o quantomeno la loro stragrande maggioranza albanese) hanno fatto di testa loro ed hanno autoproclamato l’indipendenza a metà febbraio 2008. Ora a seminare ulteriore zizzania e incertezza arriva il “Piano Ban Ki-Moon”, un progetto in sei punti che difficilmente passerà alla storia come il Piano Marshall o altri “piani” più fortunati. Ma ripercorriamo la successione degli avvenimenti più significativi. Nel febbraio del 2007 l’inviato dell’ONU per il Kosovo, il finlandese Marti Ahtisaari, presenta il suo celebre piano secondo cui la missione UNMIK dovrà terminare cedendo tutte le sue prerogative al governo di Pristina. A metà giugno 2008, quattro mesi dopo l’indipendenza, il Kosovo adotta ufficialmente inno nazionale, bandiera e stemma; entra in vigore la costituzione kosovara che prevede – in ossequio al piano Ahtisaari – che il governo di Pristina assuma tutti i poteri di UNMIK, la missione onusiana che però è ancora attiva.
Il presidente Fatmir Sejdiu, il primo ministro Hashim Thaci e il presidente del parlamento Jakup Krasniqi sono concordi nell’affermare che la costituzione è valida su tutto il territorio kosovaro, compresa la parte nord, vale a dire quella Kosovska Mitrovica abitata da serbi e che impropriamente viene comunemente chiamata “enclave” (non è circondata da territori albanesi ma a nord è contigua a quelli serbi e pertanto non è un’enclave). Come contromossa, il presidente serbo Boris Tadic e il ministro serbo per il Kosovo, Slobodan Samardzic, definiscono la costituzione kosovara “illegale e foriera di dannose conseguenze”.
Quasi contemporaneamente, dal cilindro del segretario generale dell’ONU, il sudcoreano Ban Ki-Moon, esce il piano omonimo, che egli sottopone ai vertici serbi e a quelli kosovari, ma in maniera formalmente asimmetrica. Infatti la lettera indirizzata al presidente serbo, due pagine e mezza, reca la dicitura “A Sua Eccellenza, Signor Boris Tadic, Presidente della Repubblica di Serbia, Belgrado”, mentre quella indirizzata a Pristina, una paginetta e poco più, è per “Sua Eccellenza Signor Fatmir Sejdiu, Pristina”. Non Presidente, quest’ultimo, dunque, ma semplicemente “Signor”, e speriamo che il postino lo conosca.
I sei punti in questione – che in parte smentiscono il precedente piano Ahtisaari – riguardano polizia, tribunali, dogane, trasporti e infrastrutture, confini, patrimonio della chiesa ortodossa serba. Circa la polizia si prevede che quella operante nelle zone serbe faccia capo all’ONU e quella delle aree albanesi alla UE mediante la nuova missione EULEX: due catene di comando separate che fanno presagire una partizione “de facto” del Kosovo su basi etniche. Anche i tribunali nella zone serbe dovrebbero essere “addizionali e locali”, in pratica una sola legge ma due strutture ad interpretarla: una albanese e una serba. In quanto alle dogane si cercherà di costituire un’area doganale unica, mentre sui trasporti e le infrastrutture il segretario generale invita i due contendenti a risolvere la questione nell’ambito del “gruppo di dialogo tecnico bilaterale”, un gruppo in cui nessuno si parla.
Sui confini continuerà a vigilare la missione KFOR della NATO (ricordiamo che vi partecipano 1.400 militari italiani) mentre alla locale chiesa ortodossa sarà garantito “il diritto all’obbedienza all’autorità religiosa di Belgrado”, diritto che la locale chiesa ortodossa avrebbe esercitato comunque, con o senza autorizzazione di alcun Palazzo, fosse anche quello di Vetro.
Circa la missione EULEX (dei 2.000 funzionari previsti gli italiani saranno circa 200), nasce con le buone intenzioni di assistere e sviluppare il sistema giuridico locale, ancora debole e fragile, ma inizialmente è stata vista con sospetto, almeno da parte di Serbia, Russia e Serbo-kosovari, che chiedevano, piuttosto, la continuazione del mandato di UNMIK, temendo che EULEX stesse cercando di formalizzare l’indipendenza del Kosovo. Da parte di Pristina, invece, la missione europea è stata inizialmente vista di buon occhio in quanto era percepita come un passo avanti e come un elemento di rafforzamento delle relazioni con Bruxelles, fortemente volute (si pensi al fatto che la moneta ufficiale del Kosovo è l’euro, l’inno nazionale si chiama “Europa” e la bandiera nazionale, su sfondo blu, riporta le stelle europee oltre alla sagoma del Kosovo). Ora, invece, la missione europea diretta dal francese Yves de Kermabon è sempre più osteggiata anche dagli albano-kosovari, oltre che dai governi di Albania e Montenegro.
I due premier balcanici Milo Djukanovic e Sali Berisha, incontratisi a Tirana a fine novembre, hanno espresso la loro netta contrarietà sia al piano Ban Ki-Moon che al dispiegamento di EULEX sostenendo che “la divisione del Kosovo su basi etniche è un piano sepolto, che porterebbe una serie di reazioni a catena nella regione”. Anche a Pristina migliaia di dimostranti all’inizio di dicembre hanno manifestato contro la missione europea con eloquenti slogan: “No alla partizione”, “Il Kosovo è nostro”, “No EULEX”.
I due attori principali, Belgrado e Pristina, sembrano adottare la politica del piagnisteo: a volte conviene, lo fanno anche i bambini furbi con i genitori deboli e accondiscendenti. La Serbia, infatti, sa bene che il Kosovo è perso fin dai tempi di Milosevic, e sa benissimo che un Kosovo parte integrante della Serbia comporterebbe entro vent’anni o poco più, a causa del differente tasso di natalità delle due etnie, una Serbia a maggioranza albanese. Tuttavia la Serbia recrimina ugualmente, per ottenere qualche forma di ricompensa da parte della comunità internazionale, sia essa di carattere territoriale (Repubblica serba di Bosnia?) sia politico-economica (un percorso accelerato verso l’adesione europea?). Anche gli albano-kosovari sanno bene che non potranno mai esercitare completa sovranità sulla parte settentrionale del Kosovo, ma recriminano per analoghi motivi, sia politici che territoriali: se Kosovska Mitrovica venisse aggregata alla Serbia (magari in cambio del riconoscimento dell’indipendenza), perché il Kosovo non dovrebbe ottenere le valli di Presevo, Medvedja e Bunovac, territorialmente serbe ma etnicamente albanesi?
Quale soluzione, dunque, per il rebus kosovaro? La parola d’ordine più sensata è: integrazione. Ora che la disintegrazione ha quasi raggiunto la sua apoteosi, è tempo di favorire l’integrazione: solo l’inclusione di tutti gli attori balcanici nelle strutture di sicurezza euroatlantiche (NATO e Unione Europea) potrà rendere ininfluenti le attuali linee divisorie, siano esse politiche o etniche. Il piano Ban Ki-Moon, invece, sembra creare le premesse per due Kosovo: non ne bastava uno?