Banche e fondi sovrani: così l’Islam invade l’Occidente
18 Novembre 2008
Nel settembre del 2007 il portavoce di "HSBC Amanah, la filiale indonesiana del gruppo bancario inglese, dichiarava: "Sharia Banking doesn’t only have to be in Mecca". HSBC, con sede centrale a Londra, è presente in 77 Paesi, in Europa, nella Americhe, in Medio Oriente e Africa. Ha 10.00o uffici e 110 milioni di clienti. HSBC non è la sola ad aver intuito la potenziale espansione verso il mercato arabo e asiatico dove la maggioranza della popolazione è di religione musulmana. Questo bacino di utenti ha attirato l’interesse di altri big del mondo bancario internazionale, Citygroup Inc., Citybank, Standard Chartered PLC, che cercano di ingrandirsi attraverso la rete dell’Islamic Franchising.
La finanza islamica si basa sul rispetto del divieto coranico di prestare o riconoscere gli interessi prodotti dal denaro stesso. Un sistema che si avvicina a quello della “banca etica” o forse ancora di più, per come viene gestito, a quello del microcredito teorizzato dall’economista Yunus, il fondatore della Gameen Bank. Non potendo far credito agli individui o alle piccole imprese, le banche islamiche gestiscono la propria clientela partecipando esse stesse all’impresa – e in seguito anche al profitto – facendosi ripagare per il rischio economico affrontato con dei sistemi che in Occidente definiamo “leasing”. Dunque chi prende denaro a prestito per avviare o gestire un investimento di impresa pagherà alla banca una quota mensile come se fosse un affitto. Le banche che rispettano i dettami della Sharia vietano anche gli investimenti su business giudicati “non puri” (halal), per esempio finanziando imprese che vendono bevande alcoliche.
Tuttavia i manager dei gruppi bancari islamici hanno ben presente la concorrenza e devono presentare al consumatore un prodotto competitivo e conveniente per gli stessi clienti. Il business resta legato alla logica dell’interesse senza “interessi” e i consumatori alla fine si comportano secondo la scelta razionale del miglior profitto. La caratterizzazione religiosa attrae i puristi della fede che scelgono questi istituti per i loro prestiti, i mutui per le case, per conservare i propri risparmi e investire in titoli di Stato (Sukuk). E’ un mercato minoritario rispetto al sistema convenzionale ma comunque in forte crescita soprattutto negli Emirati Arabi Uniti, Barhein, Malysia e Indonesia.
Nel 2007 il giro d’affari delle banche islamiche è stato stimato intorno a 1 triliardo di dollari. Particolarmente fecondo è il mercato indonesiano visto che parliamo di un Paese che conta 215 milioni di seguaci dell’Islam. In Malaysia gli istituti bancari islamici non superano il 12 per cento del mercato interno a fronte di una popolazione non-islamica che è pari al 52% del totale. Il gruppo saudita Al-Rajhi Bank – il più grande istituto islamico del mondo che però non offre servizi di microcredito nella penisola arabica – è sbarcato a Kuala Lumpur con un piano di marketing molto competitivo. I sauditi mirano alle etnie cinesi che rappresentano gran parte della borghesia produttiva asiatica. “Valore e valori” è uno spot tanto commerciale quanto trasversale.
La finanza islamica nella forma di “retail banking” va distinta – ma non del tutto dissociata – dalla sua attività nell’economia occidentale e globale. Grazie ai profitti del mercato petrolifero, i paesi del Golfo Persico si sono lanciati all’estero con una serie di piani d’investimento ben più remunerativi della gestione di conti correnti bancari dei (numerosi) fedeli del Corano. Questi investimenti non sono legati al mercato azionario americano e sono rimasti al riparo dal tonfo di Wall Street. Tuttavia hanno risentito della crisi per il vistoso calo del prezzo del petrolio negli ultimi due mesi.
I Fondi Sovrani (Sovereign Weath Founds), che sono i portafogli statali gonfi di petrodollari delle monarchie arabe del Golfo, hanno investito direttamente nell’acquisto di quote societarie di grandi firme multinazionali statunitensi ed europee, istituti di credito compresi. L’americana Citygroup ha ricevuto una iniezione di liquidità pari a 7,5 miliardi di dollari dalla Abu Dhabi Investment Authority. Vista la gravità della crisi pochissimi, in Occidente, hanno rinunciato ai fondi stranieri pur di salvarsi dalla bancarotta. Anche l’inglese Barclays Bank ha accettato una iniezione di 9,4 miliardi di dollari provenienti dai paesi del Gulf Cooperation Council – Bahrein, Kuwait, Oman, Quatar, Saudi Arabia e gli Emirati Arabi Uniti.
Rimane però una diffidenza diffusa sugli investimenti dei Fondi Sovrani nelle firme occidentali. L’ultimo quarto di secolo è stato caratterizzato da una forte diminuzione della presenza dello Stato nell’economia e dalla privatizzazione di molte società ma adesso siamo di fronte a un’inversione di tendenza. Gli attori economici sono diventati Stati e governi che entrano con investimenti cross-border nel tessuto economico di altre nazioni. Gli analisti hanno ribadito più volte che questi investimenti sono una arma a doppio taglio. Potrebbero essere usati come una rete di relazioni per un indiretto condizionamento politico del Paese in cui agiscono i Fondi Sovrani.
L’allarme è tanto forte quanto più grave e prolungata si fa l’agonia dei mercati internazionali. E il trasferimento di grandissime risorse finanziarie dall’Occidente alle petrocrazie, con il conseguente reimpiego della ricchezza accumulata (sempre nei paesi occidentali) tramite diversi strumenti finanziari, portano con sé il rischio di attività poco trasparenti. Per esempio il riciclaggio di denaro sporco o il finanziamento indiretto di gruppi estremisti islamici.