Barack Obama e Neville Chamberlain, mani tese a confronto

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Barack Obama e Neville Chamberlain, mani tese a confronto

Barack Obama e Neville Chamberlain, mani tese a confronto

26 Settembre 2009

Durante la campagna elettorale dello scorso anno, il Senatore Joe Biden aveva acutamente osservato che, in caso di vittoria, non sarebbe trascorso molto tempo prima che “il mondo mettesse alla prova Barack Obama come aveva fatto con John Kennedy” sulla politica estera. La scorsa settimana, il presidente Obama, in un brillante esercizio dei suoi poteri, è riuscito a fallire quella prova, non su un singolo bensì su un duplice piano, cedendo di fronte alle pressioni della Russia e non riuscendo ad ottenere nulla dall’Iran.

Con la sua economia sull’orlo del collasso e con le sue riserve di gas naturale in grado di assicurare la produzione di elettricità per 270 anni, oltre ad un surplus destinato alle esportazioni, l’Iran non ha certo bisogno della produzione di energia nucleare, che comporta costi molto più alti rispetto a quelli delle sue centrali a gas. Tuttavia, nella sua ottica, ha tutte le ragioni per cercare di ottenere le armi nucleari – come deterrente ad un intervento americano; per cautelarsi contro un Iraq in ripresa; per compensare in qualche modo le vicine potenze nucleari di Pakistan, Russia ed Israele; per proiettarsi verso una posizione di egemonia nel Golfo Persico e affrontare il disagio nei confronti di un’Arabia Saudita con capacità militari nettamente superiori; per liberare il mondo islamico dal dominio dell’Occidente; per neutralizzare le capacità nucleari di Israele, creando al contempo la possibilità di distruggerlo in un solo colpo; e, con riferimento proprio agli episodi della scorsa settimana, per spingere l’Europa, attraverso l’intimidazione nucleare, in una posizione contraria agli interessi americani in Medio Oriente.

Alcuni esperti di sicurezza potranno cercare di consolarsi con l’illusione che l’Iran, presto potenza nucleare, al momento agisce in modo razionale; ma in realtà un paese così dedito al culto del martirio e della morte – tanto da mandare i propri figli a camminare sui campi minati per poterli ripulire dalle mine –  non può certo essere considerato razionale. Persino gli Stati Uniti, che hanno utilizzato per ben due volte le armi nucleari durante la Seconda Guerra Mondiale, hanno valutato seriamente l’eventualità di ricorrere nuovamente al loro impiego in Corea e in Vietnam.

L’Occidente potrà anche essere troppo codardo per distruggere direttamente il potenziale nucleare dell’Iran, ma ci siamo forse spinti così lontano da promettere di rinunciare a una difesa passiva? Il presidente vorrebbe che nessuno pensasse una cosa del genere, ma come stanno i fatti in realtà? Nel giro di cinque anni rinunceremo a sviluppare le capacità di intercettare i missili ICBM, mentre l’Iran, nello stesso tempo, probabilmente riuscirà ad acquisirle, in favore di un approccio basato sui lanci dal mare, adatto solamente ai missili iraniani che dal territorio dell’Iran non possono minacciare Roma, Parigi, Londra o Berlino. Sebbene esista la possibilità per gli Stati Uniti di modificare i Block II Standard Missiles con Kill Veichles dalla tecnologia avanzata, in grado di mettere fuori uso i missili nella loro fase di lancio, tale opzione richiederebbe ai cacciatorpedinieri Aegis di trasportarli nelle acque confinanti e poco profonde del Golfo, dove le operazioni anti-missile sarebbero soggette all’interferenza e agli attacchi dell’Iran.

Gli intercettori che riescono effettivamente a coprire l’Europa occidentale sono troppo grandi per le celle di lancio verticali – o addirittura per gli stessi scafi – delle navi Aegis. Quindi, alla luce delle difficoltà di base che ostacolano un attacco in fase di lancio, per proteggere l’Europa e gli Stati Uniti Obama propone di dispiegare missili di terra sul territorio europeo, in un futuro imprecisato. Ma se davvero fosse questa la sua intenzione, per quale motivo dovrebbe decidere di non portare avanti gli attuali programmi? La risposta è una sola: sebbene abbia dichiarato di voler agire in quella direzione, in realtà Obama non permetterà il dispiegamento di missili di terra in sostituzione di quelli che ha deciso di eliminare in Europa proprio perché sono di base sul territorio europeo.

Ci troviamo di fronte a un omaggio involontario a Lewis Carroll: stiamo per cancellare un sistema di difesa la cui formazione richiede cinque anni, perché la minaccia non si concretizzerà per cinque anni. E non dispiegheremo intercettori di terra in Europa, perché il nostro nuovo piano è quello di dispiegare nuovi intercettori di terra in Europa.

In aggiunta a tutto ciò, l’instabilità ed i gravi danni che con ogni probabilità seguiranno alla comparsa dei missili nucleari ICBM iraniani, rappresentano due problematiche che possono assumere un’importanza maggiore rispetto alla questione da cui scaturiscono. Senza l’uso della forza sarà impossibile impedire all’Iran di acquisire le armi nucleari, che hanno rappresentato l’obiettivo principale degli ultimi 25 anni, tra segreti e fasi di stallo. Lo scorso autunno, il Presidente Mahmoud Ahmadinejad ha stabilito tre condizioni per gli Stati Uniti: il ritiro dall’Iraq, una dimostrazione di rispetto nei confronti dell’Iran (si legga “apologia”) e l’interruzione delle discussioni relative alla questione nucleare.

In questo momento ci stiamo fedelmente conformando, e la scorsa settimana, quando l’Iran precluso ogni discussione sul suo programma nucleare e Mojtaba Samareh Hashemi, consigliere politico di Ahmadinejad, ha previsto “la sconfitta ed il crollo” della democrazia occidentale, gli Stati Uniti hanno accettato di intraprendere delle trattative la cui premessa – incredibile a dirsi – è quella di eliminare le armi nucleari americane. Persino la stampa, ormai ridotta allo stato di zombie, si è risvegliata, giusto il tempo necessario per assillare il portavoce del Dipartimento di Stato P.J. Crowley, il quale ha risposto che, dato che l’Iran ha iniziato a mostrarsi disponibile al dialogo “siamo intenzionati a valutare quella proposta, va bene?”. 

No, non va bene. Quando Neville Chamberlain è ritornato da Monaco, per lo meno pensava di aver ottenuto qualcosa in cambio della sua mano tesa. La nuova diplomazia americana si sta rivelando niente di più che un flusso sentimentale di concessioni unilaterali – non ultime quelle nei confronti della Russia, dopo qualche piccola pressione di Putin. Eliminare il dispiegamento di missili all’interno della NATO – scelta che Dmitry Rogozin, ambasciatore russo dell’organizzazione atlantica, ha commentato sostenendo che “gli americani….. hanno semplicemente posto rimedio ad un proprio errore, e noi non abbiamo il dovere di pagare qualcuno perché rimedi ai suoi errori” – significa garantire alla Russia un veto sulle misure sovrane di difesa – l’esatto contrario rispetto alla decisione americana durante la crisi degli Euro-missili nel 1983, l’ultima battaglia definitiva della Guerra Fredda.

Stalin ha messo alla prova Truman con il blocco di Berlino, e Truman ha mantenuto saldamente la propria posizione. Khrushchev ha messo alla prova Kennedy, e durante la Guerra dei Missili di Cuba Kennedy non ha battuto ciglio. Andropov ha avuto a che fare con Reagan, e, sfidando milioni di persone per strada (coloro che oggi sostengono Obama), Reagan non ha battuto ciglio. La scorsa settimana, il presidente iraniano ed il primo ministro russo hanno messo alla prova Obama, che invece ha sì battuto ciglio, e non solo una volta, ma ben due. Il prezzo di un’instabilità del genere si è sempre dimostrato immensamente alto, anche se, come si continua a ripetere in questi giorni, il conto deve essere ancora presentato. 

© The Wall Street Journal
Traduzione Benedetta Mangano