Barroso ottiene la riconferma ma il suo sarà un percorso ad ostacoli
03 Luglio 2009
Dunque, sarà ancora Josè Manuel Barroso a guidare la Commissione Europea nei prossimi cinque anni. La “nomination” e’ stata fatta all’unanimità dai capi di Stato e di governo dei 27 al vertice Ue del 18-19 giugno scorsi, a conclusione di una curiosa cena in cui il Presidente uscente dell’esecutivo di Bruxelles era stato invitato a presentare la sua “visione” per il futuro dell’Europa (non poteva essere un “programma”, la cui redazione spetta solo alla nuova Commissione nel suo insieme): una specie di job interview, insomma, imposta da Nicolas Sarkozy e Angela Merkel per tenere sotto pressione Barroso anche in vista della formazione del prossimo collegio.
Procedura inedita
Come che sia, la nomina c’e’ stata, e senza sbavature o candidature alternative (il Trattato di Nizza, tuttora in vigore, avrebbe permesso un voto a maggioranza qualificata). Ma non e’ stata ancora del tutto formalizzata. Il summit ha infatti dato mandato alle due presidenze, ceca (uscente) e svedese (dal 1 luglio), di esplorare con i leader politici del neoeletto Parlamento Europeo (PE) se esiste la possibilità di una conferma di Barroso già nella seduta del 15 luglio prossimo, all’indomani cioè della sessione inaugurale della nuova assemblea. Qualora questa possibilità ci fosse, la presidenza proporrebbe il nome di Barroso anche in via formale, per procedura scritta. Diversamente, si riserverebbe di farlo in seguito, se e quando se ne presentassero le condizioni.
Si tratta di una procedura inedita e non del tutto cristallina, così come insolita e poco chiara e’ la situazione nella quale l’Unione si sta muovendo in queste settimane. La scelta di Barroso non ha sollevato del resto molto entusiasmo, neppure fra coloro che lo hanno sostenuto (gelida la risposta di Sarkozy alla domanda su cosa avesse apprezzato di più dell’azione di Barroso: “L’aver reso la presidenza francese dell’Unione un successo”). Ma era inevitabile e del tutto legittima, alla luce del risultato delle elezioni europee del 7 giugno scorso: Barroso era il candidato ufficiale del Ppe già da marzo, e il Ppe ha vinto le elezioni. Anche dal punto di vista procedurale, non si vede come e perché il Consiglio Europeo avrebbe potuto rinviare la decisione, vista l’incertezza che continua ad esistere sull’eventuale entrata in vigore del Trattato di Lisbona a fine anno.
E’ vero infatti che lo stesso Consiglio ha approvato le “garanzie legalmente vincolanti” richieste dall’Irlanda per poter convocare un nuovo referendum (che dovrebbe svolgersi il 2 ottobre prossimo). Ma l’esito del voto non e’ affatto scontato, anche se le prospettive appaiono incoraggianti. Inoltre, mancano ancora le firme dei presidenti polacco e ceco, Lech Kaczynski e Vaclav Klaus, in calce ai rispettivi atti di ratifica: se Kaczynski ha lasciato capire che firmerà, Klaus ha più volte manifestato l’intenzione quanto meno di ritardare il più possibile il suo placet, e di aspettare comunque l’esito delle elezioni politiche anticipate di ottobre prima di pronunciarsi. Infine, la sentenza della Corte Costituzionale tedesca, resa nota il 30 giugno, impone un’ulteriore “legge di accompagnamento” del Bundestag prima del deposito finale della ratifica da parte di Berlino – legge che sarà discussa dopo la pausa estiva e varata definitivamente ai primi di settembre.
In fin dei conti, comunque, il Consiglio ha adottato una linea che rispetta Nizza ma tiene anche conto di Lisbona e, soprattutto, del risultato complessivo delle recenti elezioni europee. Il problema principale di Barroso, infatti, e’ che la vittoria del Ppe non basta a garantirgli una maggioranza sicura a Strasburgo, neppure mettendo in conto l’appoggio che probabilmente riceverà dai 55 parlamentari del nuovo gruppo formato a destra dei popolari dai conservatori britannici e dai partiti di Kaczynski e Klaus. Al problema aritmetico se ne aggiunge uno politico: Barroso non vuole rischiare di essere confermato per il rotto della cuffia – il voto sarà a scrutinio segreto – e, magari, con il sostegno determinante delle nuove formazioni populiste e xenofobe appena arrivate al Parlamento Europeo.
La partita della Presidenza del Parlamento
Di qui l’esigenza di sondare in anticipo gli umori degli altri capigruppo parlamentari – una procedura prevista da Lisbona ma non da Nizza – e di esplorare le possibilità di un accordo sulle nomine, che evidentemente dovrebbe includere almeno anche la presidenza dell’assemblea di Strasburgo. E qui il gioco si fa complicato, dato che sia Graham Watson (capogruppo uscente dei liberali di Alde, a cui dovrebbe succedere l’ex premier belga Guy Verhofstadt) che Martin Schulz per il Pse (ora divenuto, con l’arrivo dei 21 eletti del Pd italiano, “Alleanza progressista dei socialisti e dei democratici”) aspirano ad ottenere per sé la seconda metà della presidenza del PE, mentre i rispettivi gruppi parlamentari sembrano entrambi divisi al proprio interno sull’opportunità’ di appoggiare Barroso. Non solo, ma nemmeno il Ppe si e’ ancora unito dietro ad unico nome per la prima metà, anche se l’ex premier polacco Jerzy Buzek appare ormai nettamente favorito sull’italiano Mario Mauro. E il voto sulla presidenza – con eventuale accordo sul power-sharing nel corso della legislatura – e’ in calendario per il 14 agosto.
Il 6 luglio il premier svedese Fredrik Reinfeldt riceverà i capigruppo a Stoccolma per prendere una decisione. L’ipotesi di un rinvio del voto di conferma di Barroso a dopo l’estate non e’ affatto da escludere, ma solleverebbe almeno due problemi: creerebbe un significativo vuoto di potere e di legittimità a Bruxelles, con una Commissione a fine mandato e in via di smantellamento (ben quattro Commissari uscenti sono stati eletti ad altro incarico o al Parlamento stesso, e dovrebbero essere sostituiti proprio in questi giorni), e in una fase in cui perfino la presidenza svedese ha dichiarato di preferire, come interlocutore istituzionale, un Barroso già confermato. Il voto, per di più, rischierebbe allora di slittare addirittura a metà ottobre, dato che una frattura politica a Strasburgo potrebbe influire negativamente sulla campagna referendaria a Dublino.
L’alternativa difficile
Ma, naturalmente, Barroso e i suoi sostenitori devono anche valutare i rischi di una conferma risicata e contestata. D’altra parte, i suoi avversari – un fronte eterogeneo e numericamente minoritario, almeno a priori – contano proprio su un rinvio per rimescolare le carte e, magari, far emergere un altro candidato. Ma appare difficile che una coalizione fra pezzi della sinistra, Verdi, alcuni federalisti e forse qualche euroscettico possa imporre un candidato alternativo unico, e che possa farlo contro una decisione unanime dei 27 capi di Stato e di governo.
Non solo, ma per la Commissione in quanto istituzione una rapida riconferma di Barroso potrebbe anche rivelarsi un vantaggio, permettendo al “President-elect” – ma già in carica – di negoziare da posizioni di maggior forza con le capitali su una serie di questioni-chiave che vanno dalla composizione del nuovo collegio di Commissari (nomi e portafogli) agli assetti complessivi delle nuove istituzioni create da Lisbona. Un vantaggio di cui la Commissione ha disperatamente bisogno – dopo il ridimensionamento subito soprattutto negli ultimi dieci anni ad opera sia del Consiglio che dello stesso Parlamento – e che si spera Barroso possa e voglia utilizzare, se e quando gli verrà offerto.
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