Bartali salva gli ebrei e il Papa lo riceve in maniche di camicia

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Bartali salva gli ebrei e il Papa lo riceve in maniche di camicia

14 Maggio 2011

“Se sono vivo e ho 78 anni lo devo a Gino Bartali”. Giorgio Goldenberg nel 1943 è un bambino di dieci anni che già da un po’ non frequenta la scuola ebraica di Firenze. Vive chiuso in uno scantinato, la città è occupata e per salvarsi lui e la sua famiglia devono nascondersi. Anni di guerra, occupazioni e persecuzioni. Gino Bartali trova moglie, si sposa e ha un figlio. Quasi pare ne approfitti, le corse non ci sono ma continua lo stesso ad allenarsi. Esce in bici dalla mattina alla sera e se la moglie gli chiede spiegazioni risponde che va a fare “un lungo”. Ed infatti le tratte lo sono, sempre le stesse: Firenze-Lucca-Genova-Firenze, Firenze-Assisi-Terontola-Firenze. Mai meno di 350 km, strade di guerra e campi di battaglia. Pedala su una bici speciale che nel telaio trasporta soldi e documenti falsi per gli ebrei nascosti. Rischia molto, ma così si allena Bartali. E salva la vita ad almeno 800 persone. Una storia saltata fuori da poco, a chi sa qualcosa Gino ammoniva di non parlarne mai: “Per carità, sono cose che si fanno e basta”. Tutto organizzato nei minimi dettagli, consegne, messaggi in codice, soldi e documenti falsi. Saltano fuori pure i ristori al bar della stazione di Terontola a orari stabiliti e d’accordo col barista: lui che crea confusione tra guardie e tifosi, gli ebrei che scappano sui treni. In contatto con l’organizzazione di Giorgio Nissim, un ebreo pisano, li aiutano pure sacerdoti e suore.

Gino Bartali (Ponte a Ema, 18 luglio 1914 – Firenze, 5 maggio 2000)

Quando la situazione a Firenze precipita la famiglia Goldenberg è sempre più a rischio: “Ricordo quando Bartali fece capolino nel salottino di casa nostra – racconta Giorgio Goldenberg, che oggi vive a Kfar Saba, Israele -. Ci propose di nasconderci in una cantina che aveva in zona Gavinana. Era molto piccola. Dormivamo in quattro in un letto matrimoniale, io, mia sorella Tea e i nostri genitori. Non so dove loro trovassero il cibo. Ricordo solo che il babbo non usciva mai, mentre mia madre andava con due secchi a prendere acqua da qualche pozzo”. Al sicuro nello scantinato di Bartali e di suo cugino Armandino Sizzi fino alla liberazione di Firenze (10 agosto ’44). Commosso e incuriosito dalla storia, il giornalista Adam Smulevich decide di indagare a fondo e su Pagine ebraiche lancia un appello: “Prima ha risposto Giulia Donati, 88 anni, fiorentina abitante a Tel Aviv. Poi un avvocato di Firenze: sua madre, salvata con altri tre famigliari grazie a questa rete clandestina, ricordava di aver visto Bartali più volte. E queste due testimonianze, unite a nuovi documenti, sono risultate decisive”. Le autorità israeliane così decidono di dedicargli un albero nel giardino del Bosco dei giusti. Lo Yad Vashem di Gerusalemme, il luogo della Memoria più sacro del popolo ebraico. “Sono quello che ha corso più di tutti e che ha guadagnato meno di tutti, ma non me ne frega niente. Tanto di là i soldi non se li porta dietro nessuno” (L’Europeo, n. 1 2004). Io non ho bisogno di denaro, come il primo verso di Alda Merini in Che la terra ti sia finalmente lieve. (Virgolettati tratti da Leonardo Coen, la Repubblica, 28/12/2010; Marco Pastonesi, La Gazzetta dello Sport 20/10/2010).

“Durante la guerra campavamo catturando talpe per fare pellicce e pescando rane o bottine” racconta Malabrocca, maglia nera dell’ultimo in classifica ’46 e ’47. A sentir lui almeno per il lato economico è vero che gli ultimi saranno i primi. “L’ultimo riceveva premi in natura, soprattutto al sud: la botte di vino, il salame, il maiale, il vitello. Li rivendevo oltre il traguardo e intascavo i soldi – racconta Malabrocca a Claudio Gregori della Gazzetta dello Sport -. Tanti soldi. Nel 1947, a Lugano, Bresci vinse e intascò 50mila lire, io, arrivando ultimo, 80mila. Nel ’49 il decimo della classifica finale ricevette 25mila lire, con i miei ultimi posti ne ho messe assieme 270mila. Ero sempre tra i primi dieci come guadagni. Senza contare che poi ti invitavano alle riunioni”. Nato a Tortona nel 1920, morirà l’anno dopo quest’intervista a Garlasco, nel 2006, a 86 anni. “Arrivare ultimo, però, non era facile. Carollo mi ha fatto penare nel ’49. Nella tappa di Genova, mi son nascosto dietro un cespuglio a Nervi, ma Carollo si è accorto della mia assenza e mi ha aspettato. Allora sono andato avanti e mi sono nascosto in mezzo alla gente vicino all’arrivo e l’ho fregato. Nella tappa di Bolzano mi ero infilato con la bicicletta in una vasca di mattoni e ho chiuso il coperchio di lamiera. Dopo un po’ sento un cigolio, alzo la testa e vedo gli occhi di un contadino che mi fissano. Cossa fat?, mi chiede con cipiglio fiero. Il Giro d’Italia, rispondo. Ne la me vasca?. Son dovuto uscire… Carollo, alla fine, è arrivato ultimo con 2 ore di ritardo da me, che ne avevo già 7 da Coppi. Gli avevo fatto la proposta di dividere, ma non l’ha accettata” (Claudio Gregori, La Gazzetta dello Sport 9/7/2005).

Louison Bobet e Gino Bartali scalano il Col de la Croix de Fer nel 1947

La guerra, l’occupazione e la difficile ricostruzione. Leggenda vuole che alla fine del conflitto Fausto Coppi avuta in prestito una bicicletta a Somma Vesuviana sia riuscito in un solo giorno a risalire tutta la penisola ed arrivare a casa sua in nottata, dopo ottocento chilometri, fino a Novi Ligure in provincia di Alessandria. Un Giro romanzo popolare, narratore Vincenzo Torriani. Il patròn segue tutte le tappe mezzo busto fuori dalla macchina dell’organizzazione. Dal ’48 al ’92, capo per quarantaquattro anni. Lui sceglie le squadre, i chilometri a cronometro e il tracciato. A lui s’affidano come a una Madonna le località turistiche, che se prescelte si ritroverebbero gratis una pubblicità formidabile. Democristiano, corrente Azione Cattolica, Torriani sguazza volentieri in politica: già popolarissimo, nelle elezioni del ’63 lo appoggia pure Bartali. Si dice abbia perso solo per il troppo consenso, tante erano le schede annullate per le scritte “Viva Torriani” e “Viva Bartali”. “Gli è tutto sbagliato, gli è tutto da rifare”, il refrain di Ginettaccio, brontolone sempre burbero e diretto. “Quel naso triste come una salita / quegli occhi allegri da italiano in gita” (Paolo Conte, Bartali). Bacchetta pure Paolo Conte, appena si conoscono nel 1997 a un concerto vicino Firenze: “La canzone mi piace. Ma la fa meglio Jannacci. E poi cos’è questa storia del naso triste? Hai visto che naso ti ritrovi?”.

 “Coppi è un corridore francese – dicevano a Parigi -. Bartali un italiano”. Tanto amato Fostò quanto odiato Ginettaccio. Si vedono la prima volta la mattina del 4 giugno del 1939 a Torino, sta per partire il Giro del Piemonte, Bartali è già popolarissimo, Fausto un dilettante indipendente alla che cerca fortuna. Ossuto, magrissimo, dalla faccia malinconica, nessuno punterebbe su di lui passati i primi cinquanta chilometri. “La sua struttura morfologica sembrava un’invenzione della natura per completare il modestissimo estro meccanico della bicicletta”, “Aveva lo sterno carenato degli uccelli” (Gianni Brera). Biagio Cavanna, l’orbo di Novi, massaggiatore cieco, mentore e scopritore di Fausto Coppi invece ci vede bene e più degli altri dall’inizio: “Non mollare mai, anche se ti accorgi che hai a ruota Bartali o Valetti. Perché tu li puoi piantare con la lingua fuori, anche loro, a mezza strada”. Coppi tiene a mente, va in fuga con Bartali e non cede fino a che il campione gli chiede di collaborare. E’ l’ingresso morale nell’olimpo del ciclismo. Arriverà terzo solo perché gli salterà la catena: ha 19 anni e un ingaggio in tasca con la squadra del campione.

Il mitico passaggio della borraccia. Non si è mai appurato se sia stato Bartali a darla a Coppi o viceversa

Una rivalità viscerale: Coppi comunista, Bartali democristiano e alfiere della cristianità. Così lo investe nel settembre ’47 Pio XII davanti ai membri dell’Azione Cattolica riuniti in Piazza San Pietro: “La dura gara di cui parla San Paolo è in corso: è l’ora dello sforzo intenso. Anche pochi istanti possono decidere la vittoria. Guardate il vostro Bartali, egli ha più volte guadagnato l’ambita maglia. Correte anche voi in questo campionato ideale, in modo da conquistare una ben più nobile palma”. Tanto erano in confidenza che il pontefice pare lo ricevesse in maniche di camicia. “L’arrampicatore divino”, “l’arcangelo della montagna”, “il De Gasperi del ciclismo”, così Indro Montanelli. Al Tour del ’48 dopo l’attentato a Togliatti e l’esplosione delle piazze rosse Alcide De Gasperi in persona gli telefona per chiedergli di vincere la Cannes-Briançon e la Briançon-Aix les Bains. Deve recuperare ventuno minuti e 28 secondi, e Ginettaccio trionfa: tre tappe e Tour. Tutta l’Italia fa festa, altro che assalto alle prefetture… “La situazione politica è grave ma non seria” diceva Flaiano. E pure Togliatti appena aperti gli occhi dopo l’intervento chirurgico subito chiede l’ordine d’arrivo del Tour.

Continua…