Basta poco per smontare il teorema di Repubblica sull’Articolo 18

Banner Occidentale
Banner Occidentale
Dona oggi

Fai una donazione!

Gli articoli dell’Occidentale sono liberi perché vogliamo che li leggano tante persone. Ma scriverli, verificarli e pubblicarli ha un costo. Se hai a cuore un’informazione approfondita e accurata puoi darci una mano facendo una libera donazione da sostenitore online. Più saranno le donazioni verso l’Occidentale, più reportage e commenti potremo pubblicare.

Basta poco per smontare il teorema di Repubblica sull’Articolo 18

04 Marzo 2010

Ci risiamo. Repubblica prova ad infiammare un nuovo scontro ideologico, una nuova campagna dei buoni contro i cattivi Maestri. E quale migliore argomento dell’articolo 18? Il titolo di mercoledì in prima pagina: Licenziamenti, arriva la legge per aggirare l’articolo 18; e all’interno altro titolone: Governo all’attacco dell’articolo 18. Il quotidiano in edicola oggi, sempre in prima pagina: Articolo 18, rivolta contro la riforma; all’interno: Articolo 18 aggirato, passa la legge. Stanno veramente così le cose? Vediamo.

Una prima precisazione serve in merito alla “tempistica” della norma contestata. La notizia, come fatta passare da Repubblica – cioè la nuova norma sia arrivata «senza dirla, almeno direttamente» – può ingenerare dubbi e facili sospetti da cui possono scaturire anche pericolose contestazioni. Sono certo della buona fede del giornalista, ma non è affatto vero che il “Governo” abbia operato silenziosamente (e qui andrebbe altresì corretto che non è solo il Governo, ma tutto il Parlamento che ha approvato la nuova legge): le contestate disposizioni, infatti, sono state appese almeno due anni, tra Camera e Senato, e di esse tanto se n’è già parlato sui quotidiani, perlomeno su quelli più tecnici (ItaliaOggi e IlSole24ore per esempio).

Andiamo avanti; vediamo cos’è che produrrebbe tanto spregevole scandalo. L’argomento, come si è capito, riguarda il fatidico articolo 18: la norma per la reintegrazione nel posto di lavoro del dipendente licenziato senza giusta causa. L’articolo 18 è fermo lì e lì resterà anche dopo l’entrata in vigore della nuova legge, che è il “Collegato lavoro” definitivamente approvato mercoledì sera dal Senato. Dice Repubblica che nel Collegato «c’è scritto che le controversie tra il datore di lavoro e il suo dipendente potranno essere risolte anche da un arbitro in alternativa al giudice: o l’uno o l’altro». Giusto. Ma se è corretto, vuol dire allora che la novità (la via stragiudiziale dell’arbitrato) è qualcosa che si va ad aggiungere non a togliersi alla disciplina in vigore dell’articolo 18 (la via giudiziale). Infatti, dopo l’entrata in vigore del Collegato, per le controversie individuali di lavoro le parti (datori lavoro e lavoratori) potranno pattuire clausole compromissorie che rinviino all’arbitrato presso la Commissione di conciliazione o presso il Collegio di conciliazione e arbitrato irrituale. Dunque, all’atto pratico la novità si traduce nella nuova possibilità che consentirà ai lavoratori e ai datori di lavoro, all’atto della stipulazione del contratto di lavoro (cioè all’atto dell’assunzione), di impegnarsi che, qualora nasca una controversia sul lavoro (un licenziamento “illegittimo”), faranno ricorso all’arbitrato e non al giudice del lavoro (la via che oggi è contemplata come esclusiva).

Questa nuova previsione – questa opportunità di ricorso alternativo alla via giudiziale – sarebbe sufficiente, secondo Repubblica, a introdurre una «…strada assai meno garantista per il lavoratore che in un momento di debolezza negoziale (quello dell’assunzione, appunto) finirebbe per essere costretto ad accettare».

E arriviamo al dunque. Al fatto essenziale contestato, ossia al fatto che la norma implicherebbe la collocazione del lavoratore in una posizione di “debolezza decisionale” rispetto all’impresa (qui il raggiro all’articolo 18, secondo Repubblica): pur di avere il posto di lavoro, il lavoratore chinerebbe la sua volontà a sottoscrivere la rinuncia del ricorso a un giudice, a favore dell’arbitrato.

A smontare il teorema di Repubblica basterebbero le parole di Giuliano Cazzola: «Bisogna smetterla di considerare i lavoratori come dei minus habens, incapaci cioè di scegliere responsabilmente e consapevolmente un percorso giudiziale o uno stragiudiziale» (l’arbitrato, appunto). Tesi condivisa in pieno. Ma per Alcuni, invece, una tesi che presterebbe il fianco all’obiezione che si tratta di una giustificazione teorica, quasi filosofica, basata cioè sul principio di una “parità” contrattuale che, in realtà, tanto “eguale” (tra chi cerca e chi offre lavoro) sempre non è, specie in tempi di scarsità di lavoro. «Lavoratori più deboli e ricattabili», ha tuonato per esempio Guglielmo Epifani, chiamando a raccolta la Cgil e preparandola alla piazza e alle aule dei Tribunali. Per evitare fraintendimenti, è perciò bene andare oltre con il ragionamento fino a verificare fino in fondo ciò che le nuove norme statuiscono: non tutto, infatti, è stato detto da Repubblica.

La possibilità di prevedere la clausola compromissoria nelle controversie individuali di lavoro (cioè, ripeto, la facoltà di optare per il ricorso all’arbitrato invece che al giudice) è stata subordinata a due condizioni. Prima condizione: questa facoltà deve essere prevista (e dunque disciplinata) in accordi interconfederali e nei contratti collettivi di lavoro (ccnl) delle maggiori organizzazioni nazionali di lavoratori e datori di lavoro. Seconda condizione, molto più rilevante: la clausola compromissoria, per la sua validità ed efficacia, deve essere certificata da una “Commissione di certificazione dei contratti di lavoro” la quale, proprio a maggiore tutela della “libertà” dell’arbitrato, deve accertare  “l’effettiva volontà delle parti” (datore di lavoro e lavoratore) di volere ricorrere all’arbitro (cioè il raggiungimento dell’intesa con scienza e coscienza).

(Si ricorda per inciso che le Commissioni sono organismi già operativi che certificano la legittimità dei rapporti di lavoro “non standard”, cioè quelli non a tempo indeterminato, al fine di evitare “simulazioni” dei rapporti – per esempio: co.co.co. che mascherano un normale lavoro dipendente).

Repubblica non fa minimo accenno alla seconda delle suddette condizioni. Una distrazione, è parere di chi scrive, che costa caro sia all’efficacia del discorso che (soprattutto) alle conclusioni addotte dal Quotidiano. Infatti, la certificazione va a costituire una “garanzia” proprio per quella “debolezza decisionale” (astratta o reale che si ritenga) che è denunciata da Repubblica: appurando la “volontà” del lavoratore di scegliere l’arbitrato, la certificazione conduce al riequilibrio delle posizioni di impresa e lavoratori. Si evidenzia da sé che se il vincolo della certificazione fosse stato evidenziato nell’articolo – come bisognava farsi – il pericoloso allarme lanciato da Repubblica si sarebbe ridotto se non addirittura smontato del tutto.

PS Tra qualche settimana ricorrerà l’ottavo anniversario della scomparsa di Marco Biagi; le Sue parole sono quanto mai attuali. Nel Suo ultimo articolo di fondo, uscito postumo il 21 marzo 2002 sul Sole24Ore, il Giurista assassinato dalle Brigate Rosse scriveva: «Il nostro diritto del lavoro è diventato una materia di forte richiamo anche per l’opinione pubblica». A proposito dello scontro sociale sul primo tentativo di riforma sperimentale dell’articolo 18, aggiungeva «In realtà l’art. 18 c’entra poco o nulla. Non possiamo far finta di non vedere che il vero dissenso non è tanto (o non solo) riferito a questa norma pur così emblematica nel nostro ordinamento. (…) Il vero terreno di scontro è più in generale quello riguardante un progetto di riforma dell’intera materia, da un lato, e la difesa strenua dell’impianto attuale, dall’altro». Sono trascorsi 8 anni e l’interrogativo resta ancora attuale e senza risposta: modernizzazione o conservazione?