Bella la vita dell’intellettuale che non deve guadagnarsi il pane
06 Gennaio 2009
di Vito Punzi
Ingo Schulze, da intellettuale ben integrato nella DDR qual’era e da scrittore di successo quel’è oggi nella Germania riunificata, da anni se ne va per il mondo a spese del Goethe-Institut per trovare, come dice chi lo mantiene, “ispirazione e orientamento artistico, libero da difficoltà economiche.” Ci sarebbe molto da discutere sul fatto che la libertà dalla necessità di guadagnarsi il pane quotidiano sia garanzia di buona riuscita letteraria. A leggere gli ultimi libri di Schulze poi, i dubbi si moltiplicano all’infinito.
Di "Vite nuove", il suo ultimo romanzo pubblicato in Italia, già qualcuno aveva giustamente scritto essere “il migliore tra i peggiori scritti sulla riunificazione tedesca”. Che dire ora di questo "Bolero berlinese"? Si sono lette imbarazzanti recensioni ridondanti di attributi come "prodigio", "epifanie", "vocazioni taumaturgiche", fino alla definizione dello stesso scrittore come "prestigiatore" e "illusionista". Ecco, con l’idea di "mago" finalmente ci avviciniamo al nucleo della narrativa di Schulze, al suo "genio". Perché è davvero difficile trovare qualcuno che come lui riesca a far credere così bene ad altri di essere uno scrittore di un qualche valore.
Così come già nel poderoso e noiosissimo "Vite nuove", anche in questa raccolta di racconti brevi dominano una disarmante mediocrità nell’ispirazione (e pensare che il Goethe-Institut gli ha dato l’opportunità di vedersi e gustarsi mezzo mondo…) e una imbarazzante incapacità di costruire una narrazione anche solo minimamente capace di suscitare interesse. Complimenti a chi ha inventato, per Schulze, la definizione di "mago della banalità". E qui non è in ballo la raffinata posizione hofmannsthaliana, secondo la quale nella superficie si cela la profondità, come vorrebbe il suo "apripista" Luigi Forte.
Con la sua pretesa di rendere la scrittura quanto più possibile aderente al reale, inteso solo come ciò che nudo e crudo si rivela allo sguardo, la narrativa di Schulze nasce asfittica e altrettanto asfittica muore, senza che al lettore sia concesso sorprendersi per un inatteso debordamento, per un’incauta eppur sublime metafora, per una qualsiasi figura retorica capace di suscitare stupore e connessioni oltre il visibile. In termini aritmetici si potrebbe dire che il risultato di zero più zero non può che essere zero.
Ancor più irritante, per il lettore, è l’uso depistante dei titoli di alcuni racconti: Mr. Neitherkorn e il destino, Scrittore e trascendenza, Fede, amore, speranza, numero 23. Forse che Schulze abbia davvero deciso di sporcarsi le mani affrontando con la propria prosa temi così impegnativi e lontani dalla sua onesta formazione di figlio del realismo socialista? No, nessuna "conversione", nessun cedimento alla complessità di ciò che chiamiamo per comodità "realtà". La provocazione dei titoli è lanciata solo per negare, per irridere.
Così, l’io/Ingo risponde a Neithkorn che "il destino dell’uomo è l’uomo. Io sono il destino. Il destino – è la vodka o la limonata o il nostro dolce alla carota". L’io/Ingo "crede", ma solo "che il pesce è veramente fresco e buono". Ancor più trappola per topi sono i richiami degli altri racconti alla “trascendenza”, alla “fede”, alla “speranza”: è troppo pigro, Schulze, per dubitare delle proprie, in verità poche e banali certezze sul reale in letteratura. E tuttavia un motivo per compiacersi di questo pavido scrittore c’è: fa venire una gran voglia di narratori veri, magari "agonizzanti", dubbiosi circa il proprio narrare, e tuttavia mai sazi nella loro ricerca di senso. In una parola, di scrittori coraggiosi.