Belli, buoni e robot

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Belli, buoni e robot

27 Aprile 2008

Helena:  Perché li fabbricate, allora?

Busman: Ahahah! Questa è
bella! Perché si fabbricano i Robot!

Fabry: Per il lavoro,
signorina. Un Robot sostituisce due operai e mezzo. La macchina umana,
signorina, era molto imperfetta. Un giorno occorreva eliminarla
definitivamente.

Karel
Ćapek, R.U.R.

Il termine “robot” (dal vocabolo  ceco “robota”, ossia lavoro pesante,
sfacchinata) fu introdotto nel 1920 dallo scrittore ceco Karel Ćapek nel suo
dramma “R.U.R.” (Rossum’s Universal Robots, rappresentato il 25 gennaio 1921 al
Národní divadlo di Praga) per indicare una macchina antropomorfa progettata e
costruita dall’ingegner Rossum (da un’altra radice slava che significa
“intelligenza”) per alleviare le fatiche degli umani.

Nel dramma si ritrovano molti dei temi
relativi al rapporto uomo-robot: la compassione di Helena, che li ritiene
infelici e vorrebbe promuoverne il riscatto dotandoli di anima; il realismo di
Domin che li considera semplici macchine, prive di ogni sensibilità e destinate
a servire indefessamente gli umani; il cinismo di Gall, che le vorrebbe capaci
di soffrire per aumentare il loro rendimento; la ripugnanza di Nana, che vede
in loro l’opera del demonio; gli effetti perversi della loro laboriosità, che
porta gli uomini ad affogare nell’ozio e le donne a non partorire più; il loro
impiego militare contro gli operai in rivolta per aver perso il lavoro.

Per opera degli scienziati, i robot
progrediscono e diventano sempre più intelligenti, superando gli uomini. Quando
se ne rendono conto, i robot di tutto il mondo si ribellano ed eliminano la
razza umana per assumere il potere; così facendo tuttavia si condannano alla
scomparsa, perché senza gli uomini non sanno riprodursi. Ma due robot di tipo
specialissimo, maschio e femmina, hanno ricevuto dai costruttori scomparsi la
capacità di amare e di procreare e dànno origine a una nuova stirpe. 

Tutto è bene ciò che finisce bene, ma nel
dramma di Ćapek riaffiora potente il tema della ribellione della creatura nei
confronti del creatore, che è una costante dei rapporti uomo-tecnologia e ha
molti precedenti nella tradizione mitologica e letteraria, a cominciare dalla
ribellione di Adamo ed Eva. L’inquietudine derivante dalla possibile
insubordinazione affiora anche oggi, forse perché i robot ci imitano nelle
funzioni e nel comportamento e potrebbero un giorno diventare nostri
concorrenti.

La somiglianza delle forme acuisce
l’inquietudine: un robot a forma di frigorifero non c’impressiona quanto un
umanoide, anche se meno “intelligente” del primo. All’umanoide tendiamo ad
attribuire caratteristiche umane (intelligenza, sentimenti…) che esiteremmo a
concedere ai robot non antropomorfi. Le suggestioni derivanti dalla somiglianza
esteriore di forma sono fortissime e formano un cortocircuito destabilizzante
quando si scontrano con la consapevolezza che ci si trova di fronte a una
macchina. Ciò che si sa per via razionale rischia di essere spazzato via dalla
proiezione emotiva: il robot viene umanizzato grazie a un meccanismo simile a
quello che ci fa attribuire alle menti altrui, inaccessibili, le stesse
proprietà della nostra mente, che ci è un po’ più accessibile. Ma se per le
menti altrui la proiezione è giustificata da una potente analogia basata sulla
comune origine biologica e sull’esperienza comunicativa, per i robot si tratta
di una sorta di animismo, un’estensione ai manufatti artificiali
dell’antropomorfizzazione che esercitiamo da sempre nei confronti dell’alterità
(per esempio divina o animale).

Per esempio è difficile sottrarsi al
fascino di alcuni robot, pur sapendo razionalmente che si tratta di
robot: su di essi proiettiamo una costellazione di emozioni di tipo
estetico-erotico che sono giustificate solo dall’aspetto esteriore.

Ciò conferma quanto siamo sensibili alle
sembianze delle creature che ci circondano: l’estetica è sempre stata una guida
importante per le nostre azioni e per le nostre scelte (per esempio in campo
sessuale e procreativo). Inoltre etica ed estetica sono legate a doppio filo:
ciò che è bello ci appare anche buono e viceversa (l’endiadi greca kalòs kài agathós, bello e buono, la dice
lunga). Etica ed estetica affondano le loro radici nella nostra storia
evolutiva, anzi nella coevoluzione tra noi e l’ambiente. Propongo le seguenti
definizioni naturalistiche, che si basano su un’impostazione sistemica simile a
quella di Gregory Bateson:

•   L’estetica
è la percezione soggettiva (ma condivisa) del nostro legame con l’ambiente,
legame caratterizzato da una profonda ed equilibrata armonia dinamica.

•   L’etica
è la capacità, soggettiva e intersoggettiva, di concepire e compiere azioni
capaci di mantenere sano ed equilibrato il legame con l’ambiente. 

Etica ed estetica sono quindi due facce
della stessa medaglia perché derivano dalla forte coimplicazione evolutiva tra
specie e ambiente e sono entrambe “rispecchiamenti” in noi di questa coevoluzione.
Se l’estetica è il sentimento (inter)soggettivo dell’immersione armonica
nell’ambiente e l’etica è il sentimento (inter)soggettivo di rispetto per
l’ambiente e di azione armonica con esso, allora l’etica ci consente di
mantenere l’estetica e l’estetica ci serve da guida nell’operare etico.

Vedremo la prossima volta quali
conseguenze possano avere queste definizioni su concetti basilari quali il
libero arbitrio, la responsabilità e la coscienza.