Da meno di 48 ore si sono spente le luci sul ring del Lussemburgo dove i ministri dell’ambiente europei hanno discusso sul problema del “pacchetto clima-energia”, il famigerato “20:20:20”. Per riesaminare questo evento è utile leggere i giornali italiani e confrontarli con quanto riportano le cronache di quelli stranieri. Sembrerebbe quasi che la maggioranza dei giornalisti italiani o non erano presenti al summit o che stessero guardando un altro film: tutto a senso unico e contro il nostro Governo che ci porta allo sfascio e ci costringe a abbandonare l’Europa (quella "buona", naturalmente, perché l’altra, quella che non è d’accordo, è per definizione "cattiva").
In realtà si è assistito a una garbata ma dura battaglia dove, avvenimento raro, l’Italia ha detto “no” ad una serie di imposizioni ereditate dal passato governo e che si erano rivelate nocive per i nostri interessi e la nostra economia. Andiamo con ordine cercando di separare i fatti dalle opinioni: atteggiamento sempre più spesso disatteso dalla maggioranza della stampa italiana, qualunque sia il suo colore o opinione politica.
Si deve partire dal Protocollo di Kyoto che scade nel 2012 e che era finalizzato ad una riduzione “condivisa” delle emissioni di gas serra da parte di tutti i paesi del mondo per salvaguardare l’ambiente. A questo lodevole obiettivo è però mancato il successo per vari motivi: in primis i target definiti per i vari paesi sono stati da contestati da alcuni; non accettati da altri per varie ragioni (tutte valide se interpretate nella logica degli interessi nazionali).
Gli USA hanno chiaramente indicato che non intendevano sottoscrivere l’accordo perché avrebbe rappresentato un freno pesante alla propria economia facendo subire un danno alla struttura industriale: è difficile poter dar torto a dei governanti che dichiarano formalmente di voler fare gli interessi del loro Paese e difendere la sua economia. Peraltro, gli USA hanno lanciato varie e rilevanti iniziative per la salvaguardia ambientale basate su un sano pragmatismo e tutta la necessaria flessibilità senza vincolarle ad obiettivi rigidi e prefissati sia quantitativamente che nel tempo.
Cina ed India, le altre due grandi “potenze inquinanti” insieme agli americani, hanno adottato una posizione ancora più severa ma, oggettivamente, difficilmente criticabile: oggi i paesi sviluppati, che sono storicamente responsabili da un secolo dell’inquinamento mondiale, chiedono ai paesi in via di sviluppo di arrestarsi nella loro evoluzione per rispettare l’ambiente. Esiste richiesta più iniqua ed inaccettabile? La risposta è stata ovvia: “no”! lasciateci sviluppare fino al vostro livello e poi se ne discuterà; piuttosto, riducete ancora le vostre emissioni (la Cina chiede di abbassarle del 95%) in modo da compensare ulteriormente il nostro contributo negativo. Chi può dargli torto in tutta onestà?
La Russia, sorniona, dopo aver a lungo nicchiato, ratifica l’accordo ma garantendosi mille distinguo che, di fatto, ne svuotano ogni vincolo. Il risultato è un generale fallimento del Protocollo di Kyoto se non per alcuni rari successi dovuti soprattutto ai paesi dell’Europa del nord da sempre piuttosto attenti al problema ambientale.
In questa situazione non brillante la Cancelliera tedesca Merkel, nel marzo 2007, ha lanciato la sua sfida ambientale europea proponendo l’Unione come leader mondiale nella battaglia sui cambiamenti climatici. Nasce il piano 20:20:20 che si prefigge il 20% di migliore efficienza energetica, il 20% di uso di energie rinnovabili per la produzione elettrica ed il 20% di riduzione delle emissioni di CO2, unico gas serra di cui si discute. Il tutto da raggiungere entro il 2020.
Il programma è ambizioso e pone l’Europa in posizione preminente nella battaglia per la salvaguardia ambientale: ma ci sono dei “ma”. In primis nessuno si è posto il problema della sua reale fattibilità in un’Europa con una struttura di produzione energetica ed industriale estremamente eterogenea, soprattutto dopo l’allargamento a 27 paesi; nessuno si è realmente posto il problema dei costi di una simile operazione in termini di “extracosto” per i differenti paesi che devono già fare i conti con una globalizzazione severa e con il pericoloso dumping delle economie emergenti.
Tutti i politici, nel momento in cui si complimentavano tra loro per la geniale trovata, non si erano posti il problema del rapporto costi-benefici ignorando, purtroppo, che – anche se fosse condotta vittoriosamente in porto – l’intera operazione avrebbe contribuito ad un miglioramento nelle emissioni per la lodevole cifra del 3%: una goccia nel mare dell’inquinamento di un mondo sommerso dalla produzione di gas serra di USA, Cina, India, per non citare che gli attori più rilevanti, che contribuiscono al 70%. Ora, 70 diviso 3 fa 23,3: ciò significa che ci si stava impegnando per ottenere qualcosa di oneroso, molto oneroso, mentre nel mondo altri paesi non assumevano impegni pur inquinando oltre 23 volte in più degli europei. Quale la logica dell’iniziativa? Nessuna.
Infatti la “verde” Merkel, solo pochi mesi dopo aver sostenuto il piano 20:20:20, faceva marcia indietro lanciandosi in una campagna lobbistica pesante a difesa della propria industria ed enumerando una serie di esenzioni assolutamente necessarie. Analoghe posizioni venivano assunte dagli altri governi una volta fatti i conti degli impegni necessari a finanziare il programma. Quale la differenza rispetto all’Italia? Ogni iniziativa avveniva col sostegno di tutte le forze politiche del Paese perché nelle nazioni civili maggioranza e opposizione, pur nella differenza di posizioni, sono in grado di assumere posizioni comuni nella salvaguardia degli interessi nazionali.
Solo da noi questo non è avvenuto e non avviene: il Governo, con chiarezza, ha espresso formalmente le proprie perplessità su un piano che, così come è concepito, è sbagliato e lesivo dei nostri interessi e, soprattutto, ha contestato, dati alla mano, quanto la Commissione Europea e i nostri partners volevano imporci. Oltre al resto, non si comprende per quale motivo l’Italia, con un PIL che è il 12% di quello europeo, dovrebbe accollarsi oneri aggiuntivi per circa il 18%, mentre paesi con PIL maggiori dovrebbero sobbarcarsi extracosti proporzionalmente minori contrariamente ad ogni logica se non quella che ha sempre visto l’Italia perdente e, spesso, muta rispetto ai propri antagonisti europei nel passato.
Peggio ancora, il Piano 20:20:20 non tiene conto dell’altro ovvio principio che “chi più inquina più dovrebbe pagare” per riassettare il proprio sistema produttivo. Il tutto per di più in condizioni economiche mondiali drammaticamente mutate rispetto a due anni fa e che non accennano ancora a stabilizzarsi nonostante gli sforzi congiunti e coordinati dei governi dei Paesi più avanzati. Tanto che nei giornali inglesi è più volte apparsa la domanda: “salviamo l’economia o i sogni verdi?”.
Tra un anno, a Copenhagen, nel dicembre 2009, è prevista una riunione ONU per preparare il dopo Kyoto: in questa logica l’Europa si era lanciata nella sua corsa incosciente verso una primazia irraggiungibile e fuori da ogni contesto ragionevole. Gli ex paesi dell’Est sarebbero chiamati ad abbandonare la loro struttura energetica basata sul carbone, abbondante e a basso costo, diventando automaticamente e necessariamente utilizzatori di centrali turbogas (le sole che possono realizzarsi in due anni rispetto al nucleare) e quindi ridiventando pesantemente dipendenti dalla Russia unica fornitrice a quelle latitudini. Per gli altri, ogni comparto industriale verrebbe pesantemente sanzionato con appesantimenti non giustificati da qualunque analisi costi-benefici.
Criticare questa situazione e cercare di difendere gli interessi nazionali: questa è la colpa attribuita ai governanti italiani da un’opposizione che li accusa di “allontanarsi dall’Europa” e di accordarsi, parole precise, “con la parte più retriva ed arretrata” come vengono gioiosamente indicate le nazioni che, una volta, erano i “paesi fratelli” satelliti dell’URSS.
Già nella riunione dei Capi di Stato di Parigi, di metà ottobre, Berlusconi aveva difeso la nostra posizione spalleggiato da altri sette paesi: il comunicato finale, pur mantenendo inalterato l’obiettivo finale e la volontà di salvaguardare l’ambiente, è stato di una chiarezza senza pari: “gli obiettivi vanno raggiunti considerando, in modo rigoroso, i costi per tutti i settori dell’economia europea e per tutti gli stati tenendo conto di ogni specifica situazione”. Al di fuori della forma gesuitica il significato è lampante “…noi manterremo degli obiettivi di facciata completamente irrealistici, raffazzonati, facendo in modo che i costi siano i più bassi possibili e che ogni paese possa regolarsi come meglio crede”.
Stando così le cose abbiamo fatto bene ad assumere la posizione che stiamo mantenendo: primo perché tutti i paesi europei devono avere uguali doveri e diritti; secondo perché siamo oggettivamente nel giusto e sono gli altri che annaspano per difendere posizioni indifendibili dalle quali non hanno il coraggio e la forza di uscire; terzo perché recuperare una leadership chiara è un evidente messaggio verso quei paesi che ci hanno sempre considerati di serie B in Europa e che oggi vedono con preoccupazione emergere una realtà diversa.
Avere il coraggio, pur mantenendo l’obiettivo finale della salvaguardia ambientale, di chiedere di rimettere in discussione degli accordi errati assunti in passato non è tradire una correttezza istituzionale e continuistica che deve sempre necessariamente essere seguita: al contrario, è fare il proprio dovere di governante: assicurarsi il bene del paese, soprattutto in condizioni economiche mondiali preoccupanti.
Fa specie che l’opposizione non voglia accettare la situazione ed aprire gli occhi preferendo gli attacchi sterili e senza base a una costruzione comune di nuove tappe di sviluppo. Basterebbe che leggessero i giornali stranieri per capire come stanno veramente le cose e quello che è veramente successo sia a Parigi che in Lussemburgo: questo con buona pace delle uscite “politiche” della Presidenza europea di turno che ha, evidentemente, i suoi problemi interni e di immagine con cui confrontarsi.
Abbiamo sbagliato e ci siamo allontanati dall’Europa come affermano alcune prefiche nostrane? No, tanto è vero che venerdì 25 ottobre a Bruxelles si apre un Tavolo Tecnico di confronto sul problema costi-benefici del pacchetto che dovrà rivedere extracosti, valutazione di impatto e contributo dei singoli paesi. Se avessimo chinato il capo questo non sarebbe successo: e gli italiani avrebbero pagato in silenzio, come al solito.