Berlusconi e D’Alema sanno che prima o poi dovranno tornare a dialogare
16 Ottobre 2009
di Dolasilla
Una stretta di mano cercata, raccontano le cronache, da un Gianni Letta più alacre del solito. Ha preso Massimo D’Alema sottobraccio e lo ha condotto attraverso la piccola folla che sciamava nel parco di Villa Madama, per lasciarlo solo, lì, davanti al premier. L’ex di lusso non ha esitato a spiegare le ragioni della sua presenza in quel luogo "perché si discute dell’interesse comune, sulle cose importanti per il Paese io ci sono". Le stesse cronache, con meno verosimiglianza, raccontano di un premier per un attimo imbarazzato, ma lesto a rammaricarsi per le scarse occasioni di incontro. "Ci vorrebbero più occasioni di trovarsi insieme per cose simili, nell’interesse dell’Italia", è stato il congedo del premier.
Ora, Villa Madama non si trova a Teano, ma occupa uno degli angoli più belli della Capitale. E mercoledì 14 ottobre, il premier e l’ex di lusso del Pd si sono ritrovati, auspici i vertici degli Aeroporti di Roma e degli Aeroporti di Milano che presentavano i piani di investimento delle rispettive società, per una stretta di mano il cui significato è tutto lì.
Poi, si può strologare sul perché Letta abbia preso tanto a cuore quel saluto fra due persone che negli ultimi mesi si sono scambiate frasi non proprio di circostanza attraverso interviste e talk show. In politica, si sa, tante cose possono accadere casualmente. Anche una stretta mano. Ma una volta realizzata la casualità, la politica si riprende le sue ragioni e nulla più lascia al caso.
Berlusconi e D’Alema sanno di essere destinati, per motivi diversi quando non contrapposti, a riprendere una qualche forma di dialogo. Destinati e in qualche misura costretti. Il primo anno e mezzo della legislatura è scivolato via, scandito dalle emergenze (i rifiuti a Napoli, il terremoto in Abruzzo, il disastro ambientale a Messina) e da misure tempestive di politica economica e sociale che hanno circoscritto l’ampiezza e la profondità della crisi. Si è trattato di interventi importanti, resi ardui e in parte appannati dal clima politico infuocato. Un’opposizione che ha faticato a prendere atto della sconfitta, e per qualche verso incattivita dalle capacità realizzatrici del governo, ha finito con lo smarrire le sue stesse ragioni esistenziali, ha bruciato due segretari in 18 mesi e si ritrova sotto il perenne attacco del radicalismo dipietresco.
Sono ragioni più che sufficienti per cercare di riannodare il filo di un confronto politico con la maggioranza e sottrarre la propria identità a una definizione puramente negativa (anti: Berlusconi, Alitalia, separazione delle carriere, riforma della Costituzione e via cantando). Con un corollario importante: dialogare significa riconoscere l’altro, cioè l’opposizione riconosce il governo e viceversa.
Berlusconi è spinto da diversi interessi a cercare un cambio di stagione nei rapporti con il Pd. Da mesi assiste a movimenti più o meno scoperti di personalità, dell’esecutivo o della maggioranza, alla ricerca se non di una sponda certo di un protagonismo nei rapporti con l’opposizione, con l’idea volta al "dopo". Tralasciando l’infortunio in cui è incappato il ministro Giulio Tremonti, con quella lettera di convocazione di un convegno dell’Aspen Institute in cui parlare del dopo-Berlusconi, che cosa pensare del protagonismo del presidente della Camera? O dell’intesa sbocciata in un pomeriggio tra Bossi e Fini per sbarrare la strada al voto anticipato? Il problema di fronte al quale si trova il premier non è terribile, ma sarebbe un errore mortale sottovalutarlo: riaprire il cantiere delle riforme significa far decantare il clima politico ma, soprattutto, rendersi disponibili a riannodare il filo del dialogo con l’opposizione e gestirlo in prima persona. Un cambiamento del mood che non deve necessariamente comportare un annacquamento del programma e dello spirito riformatore.
Il tempo davanti è poco, ma non troppo. La maggioranza ritroverà al suo interno le ragioni di una rinnovata coesione: le regionali sono lì e nessun pazzo sognerebbe di rovesciare il tavolo alla vigilia di una prova politica tanto rilevante. Gli analisti politici continuano a vedere il bicchiere mezzo vuoto nelle mani del premier, ma la visuale è ancora appannata dalla prova di forza con il Quirinale e la Consulta sul Lodo Alfano. Una volta calata la polvere, a Berlusconi sarà utile fare una ricognizione delle ammaccature riportate.
Rimuovere un po’ di macerie nel confronto con l’opposizione sarà di aiuto anche alle altre riforme, in primis sulla giustizia. Questione, si sa, che riveste una qualche urgenza nella strategia del premier, e non solo per ragioni personali. Sul tema le opposizioni hanno fatto barricate in passato, vittime di una duplice strumentalità: dell’antiberlusconismo viscerale, da un lato, e dei diktat delle procure dall’altro.
Proprio perché urgente, ma anche capace di suscitare reazioni e pulsioni viscerali in una parte dell’opposizione, la questione della giustizia andrebbe parzialmente riassorbita nel capitolo delle Grandi riforme per lasciare a una legge ordinaria le misure già incardinate in Parlamento sulle intercettazioni telefoniche e sul giusto processo.
Quanto al presidente Gianfranco Fini che tuona con solennità il suo no al pm ricondotto sotto il potere dell’esecutivo, si tratta di un vecchio espediente retorico che non turba il sonno del premier. Nessun provvedimento del governo lo prevede, ma rinnovando il suo "vade retro" Fini ha potuto silenziare sul piano mediatico il suo sì alla separazione delle carriere. E i giornali si sono subito accodati, strillando che il bicchiere della maggioranza è ora mezzo vuoto dopo il no di Fini a Berlusconi in difesa dei pm. Bene, avanti così.