Berlusconi ha i numeri per governare, vuole farlo e lo ricorda anche al Colle
28 Febbraio 2011
Silvio Berlusconi ha i numeri per governare e vuole farlo. Alla Camera è riuscito a ribaltare il tavolo allargando a 320 deputati la base parlamentare che lo sostiene e al tempo stesso depotenziando il progetto terzopolista. Conferma la road map delle riforme per la fase due della legislatura sulle quali si gioca la faccia, i voti e il futuro del Pdl. Per questo non ci sta a farsi imbrigliare dai paletti che in questo momento vede come ostacoli lungo il cammino della maggioranza nella realizzazione del programma elettorale. E non senza qualche forzatura, ribadisce il concetto, ricondandolo in primis al Colle. Polemizza con Fini che replica dal salotto della Gruber secondo il clichè futurista.
I tredici uomini del presidente Napolitano sono una squadra, uno staff che “interviene puntigliosamente su tutto”. Nella sua giornata milanese il premier torna a puntare il dito contro i numerosi freni che rallentano l’attività legislativa e quella dell’esecutivo, ma anche sui paletti previsti alla Costituzione e sugli ‘interventi esterni’. Lo spiega con un esempio: quando il ‘governo decide di fare una legge, questa prima deve passare” dal Colle e dal vaglio “di tutto l’enorme staff che circonda” Napolitano. Se al capo dello Stato e al suo staff la legge “non piace, questa torna in Parlamento. E se non piace ai giudici la impugnano e la portano alla Corte Costituzionale che la abroga”.
Ma nel cahier de doleance Berlusconi ci mette anche il presidente della Camera e certa magistratura. Dice che tra Fini e l’Anm “c’era un patto e tutte le cose che non andavano bene ai magistrati venivano stoppate” perché esitono “giudici che dicono la loro e altre autorità che intervengono anche se non dovrebbero farlo”. Ingerenze, insomma che limitano l’azione del premier che “può solo suggerire”. Per questo ribadisce che serve quella riforma istituzionale che finora è rimasta solo una promessa elettorale, ostacolata – è il ragionamento del Cav. – da quella parte del Pdl che si è staccata e ha fondato un partito che oggi sta all’opposizione. Chiaro il riferimento al partito del presidente della Camera. Quindi rilancia sulla giustizia sottolineando la validità della proposta sui tempi ragionevoli del processo, norma che riguarda tutti i cittadini e che chiede anche l’Unione europea ma che ora l’opposizione si ostina a contrastare usandola strumentalmente come arma per tentare la spallata al premier. Come? Con la solita demagogia: “Poichè ci sono 103 procedimenti avviati su di me, la sinistra dice che non si fa, perché serve a Berlusconi” e quindi se “c’è in ballo Berlusconi non si può fare una legge giusta”.
Dal processo breve alle intercettazioni, altro provvedimento necessario sul quale auspica l’accelerazione alla Camera rivelando poi di non usare più il telefonino “perché esposto a qualsiasi intercettazione”. Non nasconde le difficoltà Berlusconi e la tentazione di mollare tutto, ma non lo farà – assicura – per rispettare il mandato che il 51 per cento degli italiani gli ha assegnato. Insomma un Cav. che sembra aver ascoltato le indicazioni di Giuliano Ferrara, abbandonando lo schema dei videomessaggi e tornando a parlare alla gente in prima persona. I toni sembrano quelli da campagna elettorale, ma il voto oggi non sembra più dietro l’angolo. Berlusconi sfida le Cassandre che lo descrivono ormai al tramonto ed è sulle riforme che intende procedere, forte di una maggioranza che senza i futuristi pare aver ritrovato la coesione. E’ la prova del nove alla quale non intende sottrarsi anche se la battaglia con Fini va avanti.
Ed è il presidente della Camera a replicare dal salotto televisivo di Lilli Gruber. Fini ripete che non si dimette perché “non c’è alcun conflitto” tra profilo istituzionale e politico. La sua via di fuga è che la terzietà si misura “come guida di Montecitorio quando rappresenta le istituzioni”. In sostanza, non gli si può impedire di avere ed esprimere le proprie idee politiche. Come dire: vale ciò che faccio quando presiedo dell’assemblea, tutto il resto non conta. L’abito istituzionale gli calza a pennello dentro Montecitorio, non quando fa il capo di Fli, quando c’è da sparare sul premier, fare la scissione dal partito col quale si è stati eletti, fondarne uno nuovo e collocarlo all’opposizione, convocare vertici terzopolisti con Casini e Rutelli negli uffici al piano alto del Palazzo, attaccare a testa bassa il governo e il primo ministro fino al punto da chiederne il passo indietro: a Bastia Umbra, all’assemblea di Milano, sui giornali e nei talk televisivi come è stato prima ad Annozero e eri sera a Otto e mezzo (stasera si replica a Ballarò).
Ma a ben guardare, le contraddizioni di Fini sono evidenti. Come quando risponde sul testamento biologico citando uno degli articoli del Catechismo che, seppure indirettamente, contrappone alla legge che lunedì approda alla Camera. Poi dice che non vuole aggiungere altro perché il provvedimento non è stato ancora discusso dall’Assemblea e il suo ruolo istituzionale gli impone terzietà, eppure un minuto dopo entra a gamba testa sul federalismo municipale oggi all’esame di Montecitorio, sostenendo che di fatto è un provvedimento che aumenterà le tasse ai cittadini, l’ennesima forzatura chiesta e ottenuta dalla Lega. Dice questo e lo fa quasi inviando un monito ai parlamentari della maggioranza a proposito delle voci di Palazzo su un presunto documento sottoscritto dai deputati del centrodestra che lo inviterebbero a dimettersi. Cosa “irricevibile” per Fini perché non prevista dal regolamento e perché non c’è alcun conflitto tra ruolo istituzionale e ruolo politico. Una forzatura – ripete – , come quella sulle quote latte contenuta nel milleproroghe.
Tema, pure questo, sul quale Fini fa il capo di Fli e non il presidente della Camera riprendendo e facendo proprio il j’accuse del Pd Enrico Letta secondo il quale la copertura finanziaria sulle ‘furbizie’ dei produttori di latte del nord si sottraggono fondi alla ricerca sul cancro. “E’ la cosa che più mi indigna” sentenzia Fini dando atto al numero due di largo del Nazareno di aver fatto la ‘scoperta’. Non vuole polemizzare con il Cav., ma poi non ce la fa e boccia come ‘risibili’ le parole del premier a proposito di un presunto ‘un patto’ con l’Anm per impallinare la riforma della giustizia. E ancora: stigmatizza il ‘metodo Minetti’ a proposito di criteri di selezione per le candidature e non risparmia stoccate ironiche sullo stile del primo ministro.
Se mai ce me fosse stato bisogno anche ieri sera Fini ha parlato da leader politico, dimenticando a Montecitorio l’abito istituzionale. Eppure appare evidente come dal giorno della sua elezione sullo scranno più alto della Camera l’abito non può che essere uno: quello di terza carica dello Stato. Chiaro l’intento: puntare tutto sulla sua faccia, sulla visiblità mediatica per arrivare ai potenziali elettori che – scandisce – stanno tutti nel campo del centrodestra, non a sinistra ma tra i delusi da Berlusconi e Bossi (a proposito ma non si era autosospeso consegnando Fli a Bocchino?).
Un modo per ricaricare le pile a un partito lacerato dalle divisioni interne e spiazzato dalla diaspora che ha portato via da Fli undici parlamentari in poche settimane e cancellato il gruppo al Senato. Fini ha bisogno di serrare i ranghi, motivare eletti ed elettori. L’unico modo è demolire l’immagine del premier e l’operato del suo governo scendendo in campo in prima persona. In questa partita Fini si gioca tutto e se il suo progetto fallirà annuncia che lascerà la politica. Esorcizzare per andare avanti, nella lunga traversata a piedi che ha iniziato con chi resta della pattuglia futurista. Le urne diranno l’ultima parola: su Fini come su Berlusconi.