“Berlusconi non c’entra con Moody’s. Il nostro problema sono le troppe tasse”

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“Berlusconi non c’entra con Moody’s. Il nostro problema sono le troppe tasse”

14 Luglio 2012

"Non sopravvalutiamo Berlusconi: temo che Moody’s abbia motivi più seri". Taglia corto Alberto Mingardi, politologo e direttore dell’Istituto Bruno Leoni, il noto think tank libertario meneghino-torinese, sull’ennesimo declassamento che l’agenzia di rating ha imposto all’Italia.

Gli chiediamo una battuta sulla crescita, parola che va tanto di moda e che purtroppo in questi giorni si scontra con la realtà dei fatti: la recessione economica. "Purtroppo, lo sviluppo non si fa coi decreti sviluppo. Per cominnciare, sarebbe bene costringere lo Stato ad essere un debitore migliore".

Partiamo dall’attualità. Il declassamento di Moody’s di due gradini, da A3 a Baa2. Alcuni giornalisti hanno messo in relazione l’annuncio di ricandidatura dell’ex premier Berlusconi con questo ennesimo declassamento. Hanno ragione oppure v’è altro sotto il giudizio dell’agenzia di rating?

Non sopravvalutiamo Berlusconi: temo che Moody’s abbia motivi più seri. La situazione del nostro Paese è in tutta evidenza grave: l’incertezza diffusa e pervasiva (quale sarà il carico fiscale a fine anno?) blocca l’economia privata, il processo di razionalizzazione e sperabilmente di riduzione dell’intervento pubblico procede con ritmi più lenti di quelli auspicabili. Del resto, quando il Presidente del Consiglio dice che abbiamo innanzi ”un percorso di guerra” non dice forse le stesse cose di Moody’s? Personalmente mi pare che l’ipotesi di un altro giro di giostra di Berlusconi sarebbe ferale per il centro-destra: non necessariamente per il Paese, anche perché – persino sul fronte più populista – ci sono ormai forze più attrezzate a raccogliere il consenso degli elettori.

In giro per l’Europa per mesi non si è sentito parlare d’altro che di crescita. Quel poco che l’Ue ha partorito sinora è un vago impegno in spesa per investimenti. Non le pare che in realtà il Vecchio Continente avrebbe bisogno di una politica di massiccio alleggerimento sul lato fiscale e su quello della spesa pubblica per uscire da questa seconda recessione e ritrovare la crescita?

Purtroppo, lo sviluppo non si fa coi decreti sviluppo. Delle varie misure di taglio più o meno keynesiano di cui si parla, una sola mi potrebbe avere un effetto realmente positivo nel breve: costringere lo Stato ad essere un debitore migliore, saldando i conti con i suoi fornitori. Ci sono imprese che sono fra la vita e la morte per la cialtroneria mostrata dallo Stato italiano come controparte contrattuale. Più in generale, un alleggerimento della pressione fiscale è sostenibile solo se avviene compatibilmente con il rigore dei conti pubblici: cioè a fronte di una riduzione della spesa pubblica. Meno spesa oggi significa l’aspettativa di meno tasse domani, e pertanto può avere l’effetto di rincuorare l’economia privata. Ma meno spesa è anche, nell’immediato, meno quattrini nelle tasche dei beneficiari della spesa stessa, con tutto ciò che ne consegue. Tagliare la spesa è giusto e necessario: ma bisogna ragionare sul “come”. A me sembra che l’unico modo davvero efficace di farlo sia “spostando” funzioni oggi appropriate dallo Stato fuori dal suo perimetro: non attraverso tentativi di micro-chirurgia della spesa, che non mobilitano alternative private nella fornitura degli stessi servizi e tagliano solo un po’ a casaccio i rami della pianta.

Che giudizio dà alla politica economica del premier Mario Monti? La convince? Oppure pensa che l’ex titolare di Viale XX Settembre avrebbe potuto fare di più?

Mi sembra che il cumulo d’incarichi del primo ministro fosse anomalo, ed è in qualche maniera “tranquillizzante” sapere che oggi c’è un ministro dell’economia che fa solo il ministro dell’economia. Monti ha restituito credibilità all’Italia nei consessi internazionali e nei confronti con gli altri Paesi europei. Non è poco. Rispetto alle sue scelte politiche, il peccato originale resta aver scelto la strada del consolidamento fiscale per via di maggiori entrate, e non attraverso tagli sostanziali alla spesa pubblica. Ciò che semplicemente non capisco è perché la parola “privatizzazioni” non figuri nel vocabolario del governo. L’obiettivo della riduzione del debito pubblico avrebbe dovuto “chiamare” un’opera di ridefinizione del perimetro dello Stato. Non c’è altra strada possibile.

La crisi fiscale dell’Europa, in particolare quella Mediterranea, è figlia della fine del modello politico “spesa per consenso” che nel caso italiano porta in dote un debito pubblico al 120% sul Pil. Ma non è anche plausibile affermare che l’errore commesso dai governi italiani negli ultimi venti anni sia stato quello di aver internazionalizzato il debito italiano? Il Giappone ha livelli di debito sul Pil più alti rispetto a quelli italiani ma è un debito detenuto in larga maggioranza dai giapponesi e per questo non è coinvolto in questa crisi. Cosa ne pensa?

Mi sembra vero il contrario. Il fatto che il debito sia acquistato sui mercati internazionali è una garanzia, per i contribuenti italiani. La crisi che ci coinvolge segnala l’insostenibilità dei nostri debiti. Una situazione apparentemente più protetta, in cui lo Stato si indebita esclusivamente con i suoi cittadini, non mi pare preferibile: se uno Stato fugge il giudizio dei mercati, c’è qualcosa che non va. Non citerei il Giappone come esempio: è una economia in stagnazione da una generazione…

Che giudizio dà alla spending review? Non crede che il governo abbia dimostrato una certa timidezza sui tagli all’impiego pubblico? 

Alcuni tagli ci sono. L’approccio non è però condivisibile: si sceglie la via della pretesa riorganizzazione del settore pubblico, anziché quella della privatizzazione di alcuni suoi comparti. Paradossalmente, è una via più costosa sul piano del consenso: sono continui interventi di micro-chirurgia sul corpo del malato, che inevitabilmente scontentano e creano categorie di "sommersi" e "salvati". Sarebbe più proficuo prendere la via del ”retrenchment”: scegliere che cosa vogliamo o non vogliamo più far fare allo Stato. Ma si tratta, oggettivamente, di una questione ”politica”: un governo tecnico si focalizza sulla (buona) ordinaria amministrazione. 

Il governo della Repubblica, ai suoi vari livelli, spende ogni anno circa 700 mld di euro, più del 50% del Pil. Sappiamo che il governo centrale ne controlla, a legislazione invariata, solo il 18% circa. Secondo lei a quanto dovrebbe scendere la spesa pubblica in termini assoluti e rispetto al Pil? 

Per me la spesa pubblica ottimale è quella che copre l’amministrazione della giustizia, l’esercito e la polizia: ad essere generosi, il 5 per cento del Pil.

Non crede che la crisi fiscale sia una buona occasione per il governo italiano, e la classe politica in genere, per mantenere il finanziamento con gettito pubblico delle funzioni primarie del governo – penso all’amministrazione della giustizia, alla difesa, alla sicurezza, alle infrastrutture, all’educazione secondaria – e spingere, invece, a una completa privatizzazione del resto dei capitoli di spesa pubblica, sanità e pensioni in testa? Non si fa in una sola notte certo. Però si può iniziare. Non crede?

Questi sarebbe vero se al governo ci fossero persone che pensano che le funzioni primarie dello Stato sono quelle che indica lei. Purtroppo se lei toglie a dei keynesiani il portafoglio non per questo sono meno keynesiani. La più parte dei ministri attuali pensa che esistano funzioni legittime dello Stato che vanno ben oltre quel catalogo. Lo pensa in buona fede, degna di rispetto assai di più di quanto non fosse il cinico pragmatismo di qualche ambizioso in cerca di voti – del genere che abbiamo ben conosciuto, in cariche per nulla periferiche, in tutti i governi Berlusconi. Ma serve un profondo cambiamento culturale, più che nella società italiana nella burocrazia pubblica, per arrivare a capire ciò che lei così chiaramente sottolinea nella sua domanda: le funzioni dello Stato non sono infinite.

Un’ultima domanda sull’economia italiana di fronte alla recessione. È pacifico che il Pil italiano si contrarrà sul 2012 in un range compreso tra l’1,7% e il 2,2%. Cosa dovrebbe fare il governo italiano per aiutare le piccole e medie imprese in questa dura fase recessiva?

Pagare le imprese verso cui è debitore e fare di tutto per abbassare le tasse. Il che implica una intelligente riduzione della spesa.