Berlusconi ora non sbagli politica delle alleanze
06 Febbraio 2008
Ora che le elezioni sono una certezza è quanto mai opportuno
domandarsi quale centrodestra potrebbe uscire vincitore dalle prossime
consultazioni. Non è un mistero per gli addetti ai lavori e non solo che le scorse
politiche sono state perse per una “guerra fredda” all’interno della
coalizione, per la preoccupazione cioè che fosse più utile contrastare la
leadership di Berlusconi anziché affiancarlo nella sua incredibile rimonta
leonina. Per questo motivo la nascita del Pdl aveva ingenerato speranza in chi
ancora crede che in Italia sia possibile un modello democratico bipolare, con
una stabilità governativa e una corretta alternanza tra i poli. Ben lontani
quindi dagli egoismi imposti dai piccoli partiti, tesi più a difendere l’interesse personale del
proprio apparato di potere clientelare che a garantire certezze per il paese. E
questo risultava tanto più assurdo in un centrodestra composto da partiti
piuttosto omogenei quanto a idee programmatiche.
L’Udc è un partito che ha sempre praticato una politica dei
due forni “imperfetta”. Pur essendo parte integrante dell’alleanza non ha mai
cessato di contrastare la leadership berlusconiana, incrementando o diminuendo
i propri voti a seconda dell’indice di gradimento di Berlusconi. Può certo vantare personaggi di spicco: come
dubitare del conservatorismo di un Buttiglione, di un Volontè o di una
Santolini? Il problema è nei suoi metodi, che vanificano la forza dell’impianto
valoriale. Per intenderci: che credibilità può avere un partito che come
segretario, e quindi custode ultimo della linea politica, ha espresso per anni
la figura di Marco Follini, oggi membro a pieno titolo di quella massa confusa
che è il Pd? In più è un partito destinato ad un inesorabile declino: l’abbandono
di Giovanardi,
Bianca
vale circa un terzo dei voti e in cui si prepara una migrazione di quadri
dirigenti verso il Pdl) sono duri colpi
dai quali difficilmente potrà riprendersi. Per quel che concerne An, poi, il
partito sta dimostrando di essere completamente in balia del suo segretario,
che se fino a qualche tempo fa temeva il ritorno al ghetto, oggi tira un
sospiro di sollievo e si allinea fedelmente a Berlusconi. Ma quanta fiducia è
possibile riporre nell’intermittenza di Fini, quanto possiamo essere sicuri che
attenda pazientemente l’uscita di scena di Berlusconi per aspirare
legittimamente alla leadership?
Tutte queste domande, che sembravano risolte all’indomani
della svolta di piazza San Babila, oggi è necessario riproporle. Elemento
essenziale per la riuscita del piano berlusconiano era il referendum
elettorale, rinviato all’anno prossimo. Ma questo non significa che in attesa
di realizzare il progetto si possa addirittura regredire nella linea delle
alleanze. Il riferimento è all’ipotesi sempre più sussurrata di imbarcare nella
coalizione Udeur e diniani, che presentano gli stessi difetti degli alleati
attuali ma con alcune aggravanti: non essendo membri fondatori e provenendo dall’altra
parte dello steccato politico hanno gioco facile a rivendicare la loro
“indipendenza”; hanno condotto tutto il loro corso politico sul trasformismo
parlamentare; con l’Udeur in particolare la convergenza programmatica è
puramente teorica e di facciata, basti ricordare che questo partito non ebbe
esitazione a votare la norma antiomofobia contenuta nel decreto sicurezza solo
per salvare il governo.
È evidente che i patti pre-elettorali hanno come sede
principe le stanze dei bottoni e su di essi incidono poco i suggerimenti che
arrivano dal basso. Ma Berlusconi non può rischiare di cadere nello stesso
errore del centrosinistra, assemblare un grande carrozzone elettorale per
vincere le elezioni e non domandarsi che succederebbe dopo. Se i tempi non sono
maturi per sciogliere l’asse con An, occorre ripensare l’alleanza con un’Udc in
agonia e rifiutare categoricamente qualunque apertura a sinistra. Sarebbe un
regalo inutile e certamente non ricambiato dai transfughi del peggior governo
della storia repubblicana.