Bersani come Prodi, la sinistra è troppo debole per governare
23 Marzo 2013
Le consultazioni al Quirinale sono partite e terranno desta l’attenzione dei commentatori (se non del pubblico) almeno per tutta la prossima settimana. La domanda del giorno sembra essere questa: riuscirà Bersani a formare un governo oppure no? Per capirlo, anziché addentrarsi in speculazioni avventate sull’atteggiamento delle varie forze politiche o sui misteri dei palazzi romani (e adesso anche su quelli dei sobborghi eleganti di Genova), è forse più utile svolgere un raffronto tra la situazione attuale e quella del 2006, perché se ne possono trarre utili indicazioni rispetto al presente.
Appare evidente, infatti, la somiglianza tra il risultato elettorale di sette anni fa e quello odierno. Nel 2006, proprio come oggi, la prevista vittoria del centro sinistra non si verificò, ma dalle urne uscì un sostanziale pareggio. In entrambi i casi, inoltre, il centro sinistra (grazie al premio di maggioranza nazionale previsto dalla legge elettorale) dispone di una larga maggioranza alla camera dei deputati, ma non ha una maggioranza in Senato (dove il premio è frammentato per regione). Analogo è anche l’atteggiamento dei due leader di centro sinistra. Prodi rifiutò la prospettiva di un governo di unità nazionale, Bersani ha ripetuto più volte che un accordo con il centro destra è da escludere in linea di principio. L’unica differenza è che Prodi più volte si dichiarò certo di poter governare per tutta la legislatura mentre Bersani, più modestamente, ha fatto sapere che si racconterebbe anche di un governo della durata di uno o due anni.
In quell’occasione Prodi scelse di dar vita un governo basato su di una maggioranza composita che andava dai trotzkisti di rifondazione comunista e dei comunisti italiani, al partito azienda familiare di un democristiano doc come Clemente Mastella. Come si ricorderà, per accontentare tutte le componenti del suo esecutivo, il professore bolognese dovette varare il governo più grosso della storia repubblicana, ricco (se non ricordiamo male) di 102 tra ministri e sottosegretari. Nonostante questo gigantismo di poltrone, però, per assicurarsi la maggioranza al senato dovette far ricorso all’allora cospicuo manipolo di senatori a vita che, da rappresentanti onorari dell’intera nazione, si trovarono arruolati sotto le bandiere di un determinato schieramento politico. Una situazione che in punto di diritto costituzionale poteva definirsi perlomeno disinvolta ma che, considerata sotto il profilo storico, era la riprova dell’importanza dello sforzo egemonico dispiegato dal vecchio partito di Gramsci e di Togliatti. Sappiamo tutti come andò a finire. Il Prodi due non solo fece rimpiangere largamente il Prodi uno, non solo rimase sempre sospeso ad un filo, dispiegando un’azione di governo contradditoria e poco coerente, ma ebbe vita breve.
Adesso il tentativo di Bersani sembra riproporre la medesima logica di incoerente ammucchiata. Anzitutto, la base di partenza non può certo dirsi solidissima. La convivenza del Pd con il Sel di Vendola non va data per scontata, e risulterà sicuramente non facile sul fronte sempre spinoso della politica estera. Ma, in aggiunta a questo handicap intrinseco, per mettere assieme una maggioranza in Senato Bersani deve assicurarsi il coinvolgimento o almeno l’appoggio dei centristi, e successivamente negoziare quello della Lega. A partire da questa piattaforma instabile dovrebbe poi, volta per volta, incoraggiare o ricercare i consensi degli esponenti del movimento di Grillo. Insomma se anche riuscisse a raggranellare una maggioranza per spuntare la fiducia alla camera alta, il suo governo avrebbe tutte le caratteristiche di un esecutivo debole (se non traballante), esposto al primo vento di fronda, impossibilitato, perciò, a perseguire politiche coerenti ed efficaci. In conclusione, considerando le analogie con il 2006, c’è da sperare che, al di là dei proclami di facciata, Bersani tenga conto dell’esperienza passata e non si lanci in combinazioni avventurose.