Bersani deve decidere se sottrarre o no il Pd all’abbraccio mortale di Di Pietro
20 Novembre 2009
di Dolasilla
Il segretario del Pd Pier Luigi Bersani riuscirà là dove hanno fallito Walter Veltroni e Dario Franceschini, cioè sottrarre il partito all’abbraccio mortale del dipietrismo? E’ la prima, vera e al momento unica sfida alla quale è atteso. Da come saprà affrontarla si potrà capire se Bersani è in grado di imporre quel cambio di passo e girare la pagina giustizialista alla quale il Pd oggi, ieri i Ds e il Pds, è inchiodato da oltre 15 anni.
D’Alema, qualche giorno fa, tradito da un momento di sincerità si spinse a definire come un errore grave il tifo del Pds per la folla che lanciava le monetine contro Bettino Craxi all’uscita dall’hotel Raphael. E’ facile ironizzare sui 16 anni necessari a un politico per esprimere parole di condanna per un episodio che le coscienze più avvertite non esitarono già allora ad esecrare.
A Bersani, però, non serve andare molto indietro nel tempo per raddrizzare la barra del partito sulla materia. Lui è chiamato a decidere su una questione insieme più semplice e più complessa: il governo di questo Paese è composto da una squadra di criminali e delinquenti, come sostiene Antonio Di Pietro? Oppure è un governo legittimato dal voto popolare e dunque nelle condizioni di governare per l’intera legislatura? Dalla risposta a questa domanda dipende il futuro del Pd e dello stesso Bersani.
Una risposta positiva alla prima domanda non apre neppure il discorso. Vorrebbe dire chiudere la partita e consegnare le chiavi del Pd e la sua storia ad Antonio Di Pietro.
Più insidiosa e difficile è la risposta alla seconda domanda. Bersani non ha avuto difficoltà a riconoscere, già nei mesi scorsi, l’assoluta legittimità del governo in carica e il diritto di Silvio Berlusconi a governare il Paese. E’ stato legittimato dal consenso popolare, prima e unica fonte di legittimazione in ogni democrazia. Allora può un simile governo essere delegittimato dall’azione di alcuni magistrati attraverso procedimenti giudiziari a carico del premier?
La risposta del Pd su questo punto si fa più contorta. Bersani ha sostenuto fin dal discorso di insediamento del 25 ottobre che il partito è pronto a esaminare la riforma della giustizia se essa è fatta per i cittadini e non con provvedimenti per il premier. Ora, accertato che Silvio Berlusconi è un cittadino italiano e dunque nella condizione di ogni cittadino italiano di avere una giustizia celere, serena e obiettiva, il tema che si impone è drammatico: un Paese che le classifiche inseriscono fra le prime sette potenze economiche può permettersi di essere guidato da un premier eventualmente condannato in primo grado per corruzione in atti giudiziari o anche solo per aver rubato una gallina? In vena di goliardia, qualche giorno fa Francesco Rutelli, fresco profugo dal Pd, ha dato una risposta affermativa. Sì, il premier si faccia processare e, se condannato, vada avanti, ha sentenziato.
Goliardia a parte, ci si è avvicinati al nodo gordiano che il Pd non ha la forza di recidere con un colpo di spada. Un premier condannato in primo grado potrebbe certamente governare, nel tempo che gli lascerebbe la preparazione dell’appello. Mettiamola così: l’Italia ha interesse a essere governata da un premier condannato in primo grado? La risposta diventa senza esitazione negativa. Silvio Berlusconi potrebbe proseguire nella sua attività di governo, ma il Paese ne riceverebbe danni di immagine e dunque di sostanza.
Tutti coloro che sostengono queste tesi – si chiamino Montezemolo o Rutelli o Bersani – o peccano di ingenuità o sono chiaramente in malafede. Senza uno "scudo giudiziario" che metta il premier al riparo temporaneo dai processi, da celebrare una volta conclusa la sua attività di governo, non si curano gli interessi dell’Italia. Perché, piaccia o meno, la continuità dell’azione di governo si fonda sulla certezza che essa sia utile e nell’interesse del Paese.
Bersani non è oggi nella condizione di favorire l’approvazione del ddl sui processi abbreviati. Per lui la sfida è un’altra: gli basta "non impedire" l’approvazione del provvedimento in Parlamento. Ma questo non è in condizione di dirlo, almeno fino al 5 dicembre. Quel giorno, infatti, si deve consumare l’ennesima intifada giustizialista di Antonio Di Pietro contro il "criminale" Berlusconi. A essa prenderanno parte numerosi parlamentari del Pd, a confermare quanti e quali veleni circolano ancora in quel partito come retaggio della cupa stagione di Tangentopoli. Dopo quel giorno, però, Bersani dovrà trovare parole nuove e tradurle in atti parlamentari nuovi. Diversamente, saranno stati sei mesi di inutile campagna congressuale.