Bersani dice no al Pd del Nord ma l’onda del malcontento torna a salire
14 Aprile 2010
Con la sconfitta nella città di Virgilio cade l’ultimo feudo rosso in Lombardia. Ma non è solo la caduta politica e simbolica dell’ennesima roccaforte a lasciare il segno. La debacle di Mantova, infatti, fa male per almeno altri due motivi.
Il primo è la sconfessione di un altro esperimento di coabitazione con l’Udc con la conferma che la somma algebrica di partiti poco affini non sempre produce il totale atteso dei voti. Il secondo è lo schiaffo incassato dallo stato maggiore del Pd che si era recato in massa a fare campagna elettorale tra Piazza Sordello, Piazza delle Erbe e Piazza Mantegna e aveva concentrato qui gli sforzi della campagna dei ballottaggi. Una processione da ultima spiaggia a cui avevano partecipato Pier Luigi Bersani, Massimo D’Alema, Piero Fassino. Ma del traino dei leader alla prova dei fatti non s’è vista traccia.
Inevitabile allora riaccendere le micce del dibattito interno e ripartire con l’autoanalisi. Un esercizio su cui si sofferma Romano Prodi che disegna una traiettoria iperfederalista, prefigurando un partito che decentri il potere nelle mani dei segretari regionali e metta in discussione il dogma delle primarie. Oppure Massimo Cacciari che imbraccia la sciabola e parla chiaro: “Non è possibile suicidarsi in quel modo a Mantova. Vuol dire proprio non avere alcuna direzione e zero organizzazione. In questo momento il Pd è soltanto un aggregato di posizioni e di correnti totalmente allo sbando. Mantova è un segnale molto negativo”. La ricetta dell’ex sindaco di Venezia è una forte organizzazione al Nord. “Guardi, io comincio all’ineffabile Prodi che dopo quindici anni si è svegliato ma dovrebbe vergognarsi di parlare adesso. E con lui dovrebbero vergognarsi tutti: D’Alema, Rutelli, Fassino: ma come si fa a venire a proporre adesso il partito federalista dopo che per quindici anni, tutti insieme, non hanno voluto ascoltare?. Serve una struttura autonoma al Nord con una chiara, netta e forte responsabilità in mano a Sergio Chiamparino”.
E ad animare il dibattito ci pensa anche Piero Fassino che oggi, in una intervista al Messaggero lancia un segnale chiaro al segretario: “Ci sono momenti in cui un leader deve avere il coraggio di osare, di aprire un processo di innovazione politica, di compiere gli strappi necessari. Il momento è questo: a Bersani chiedo soprattutto di avere coraggio”.
In realtà in un momento di tensioni interne, che vivranno un nuovo round sabato in direzione, i dirigenti storici scelgono di non alzare troppo i toni. Se Bersani accoglie con toni diplomatici la sferzata dell’ex premier, sono i big di Area Democratica a non risparmiare fendenti. Beppe Fioroni, ad esempio, stronca il “modello Lega di sinistra” suggerito da Prodi che forse fa questa proposta spinto “dal rimpianto e dal rancore che insieme hanno effetti devastanti”.
I venti segretari regionali individuati da Prodi come i possibili veri leader del Pd federalista, si dividono tra gli entusiasti, come il segretario dell’Emilia Romagna Stefano Bonaccini e chi, pur chiedendo più attenzione ai territori, non si spinge fino a immaginare un partito senza un vero leader nazionale.
Il segretario non è comunque impermeabile alle proposte prodiane e immagina un partito federale ma non di campanili. Anche per questo venerdì scorso ha incontrato a Parma il sindaco di Torino Sergio Chiamparino ed è possibile un nuovo round tra i due già nei prossimi giorni. Bersani vorrebbe coinvolgere il numero uno torinese in un ruolo nazionale e coinvolgere nel suo progetto quello che potrebbe essere il suo futuro antagonista o il suo candidato premier. “Non è vero che non si voterà più per tre anni, l’anno prossimo si vota in città come Milano, Napoli, Bologna ed è lì che si misurerà la capacità del Pd di essere un partito popolare” sprona i suoi Bersani.
E’ il territorio, insomma, la parola chiave su cui prefigurare la ripartenza del Pd, dicendo no a un partito che sposti il suo baricentro verso il Nord. Però senza toccare o mettere in discussione le primarie. Nella proposta Prodi, infatti, oltre all’accento sulla struttura federale, c’era un corollario che prevedeva la cancellazione degli organismi dirigenziali nazionali “inefficienti”. I segretari regionali, eletti con le primarie, eleggevano a loro volta il leader nazionale. Un meccanismo che di fatto escluderebbe le primarie nazionali. Ma parlando ai segretari regionali Bersani non ha dato seguito a questa proposta e ha evitato di aprire un nuovo fronte con i veltroniani.
Il risultato è una tregua di necessità che viene sposata anche da Franco Marini. “Basta parlare di contenitori, a forza di farlo abbiamo eletto un’assemblea di tremila persone che siamo riusciti a riunire una sola volta per una mezza giornata. Ora Bersani è il segretario eletto alle primarie, l’assetto del Pd è questo e non si tocca. La questione è politica: dobbiamo riscoprire il gusto di votare e decidere”. Un gusto che dovrà essere esercitato anche in merito alla questione riforme. Se la minoranza chiede di non prestare il fianco a Berlusconi, la segreteria è pronta a proporre una propria piattaforma che parta dai temi economici e sociali e arrivi fino al Senato federale e alla riduzione dei parlamentari.
In ogni caso Bersani è convinto che sia necessario sedersi al tavolo con il governo così come confida di avere la maggioranza del partito con sé. Le tossine della sconfitta mantovana, però, rischiano di essere difficili da smaltire. E non c’è dubbio che nel corso della direzione il segretario non potrà giocare la sua partita in scioltezza ma dovrà resistere, per l’ennesima volta, alla pressione del malcontento.