Bersani è lo Sherlock Holmes in cerca delle radici dimenticate del PD
01 Novembre 2009
Alto e dinoccolato, naso adunco, fronte spaziosa, sguardo mefistofelico e modi da signore, Pierluigi Bersani è lo Sherlock Holmes del Partito Democratico. Sarà per la vasta competenza in materia economica (che è sempre più roba da detective), sarà per la sicurezza nei giudizi e l’intuito speciale nel trovare soluzioni, ma il nostro sembra tagliato apposta per la parte.
Al termine di ogni dibattito, di ogni brillante deduzione, di fronte allo stupore che suscita la sua logica stringente e la favella chiara, alla “parla come mangi”, ti aspetti sempre che sorga altero e scandisca soddisfatto un “Elementare, Watson!”. Se non fosse per quell’inconfondibile accento emiliano, diresti che abita al numero 221B di Baker Street. E comunque, mai dire mai: c’è chi giura che la madre di Sherlock Holmes fosse di Bologna…
Se Tremonti è il dottorino cresciuto a “bocconi” di pane e libri di teoria economica, l’iperbolico ragionatore tutto numeri ed erre moscia, lui è l’uomo del popolo che sta in mezzo al popolo, l’economista filosofo che spiega ad ogni passo il suo metodo e media la teoria coi fatti. Alla spocchia del genietto del Pdl oppone una conoscenza “figlia dell’esperienza”, frutto di studi spontanei e privati e di anni di pratica amministrativa. L’ideale per fare opposizione al governo e ritrovare l’identità del Pd in tempi di crisi economica.
Era sceso in campo a febbraio, col Pd in piena crisi, prospettando la sua candidatura alla segreteria nel congresso d’autunno. Del padre-padrone Veltroni si annunciava come la nemesi, “l’ultima e più alta corte d’appello” destinata a giudicare il suo operato. Nell’aria, in effetti, aleggiava un’insofferenza e un’ansia di nuovo, un sentore di giubilazione che Walter “l’americano” non tardava a cogliere, facendosi elegantemente da parte prima di finire crivellato nella congiura.
La strada di Sherlock Bersani sembrava spianata, ma l’unico a non fare salti di gioia era proprio lui. Tolto di mezzo Veltroni, quando tutto sembrava risolto, ammoniva con le parole del suo alter ego: "Non dobbiamo peccare di eccessiva fiducia. Per semplice che appaia adesso, questa faccenda potrebbe nascondere qualcosa di più profondo".
E infatti, scampato il pericolo numero uno, subentrava il suo vice, il mite Franceschini, ex democristiano abituato ad entrare “di stretto” e a mettersi “di chiatto”. Nato come traghettatore temporaneo, gli si leggeva chiara in faccia la voglia di mettere tende. In quattro e quattr’otto imbastiva una strategia di opposizione al governo fatta di provocazioni e proposte, vecchi cavalli di battaglia e nuove ardite riflessioni, con l’allure del leader rampante e un’imperdonabile trascuratezza per i dettagli.
Uno, in particolare. Nella foga di fare qualcosa per se stesso, Franceschini si scordava di fare qualcosa per il partito. Che restava a languire come un’improbabile chimera: liquido ma anche solido, sospeso tra il centro e la sinistra, la testa di D’Alema e il corpo di Veltroni. Sherlock Bersani gongolava: no che non poteva essere Franceschini il nuovo leader del Pd. “Avrà pure l’istinto”, pensava, “ma gli mancano quelle vaste conoscenze essenziali a un ulteriore sviluppo della sua arte”.
Lui, al contrario, del leader aveva tutto: cultura, spirito di osservazione, capacità di ragionamento. In silenzio, immerso in apnea, aveva già iniziato a fare quello che sa fare meglio. Studiare i problemi e cercare soluzioni. Ragionare a ritroso, dagli effetti alle cause, lungo una catena di deduzioni che stupisce solo chi non ne conosce tutti gli anelli.
Mesi di elucubrazioni, dalla scorsa primavera ai nostri giorni, gli hanno suggerito una diagnosi perentoria: l’eclissi del Pd è figlia del “leaderismo”, il morbo contratto da Veltroni e trasmesso nientemeno che dal “principe del male” Berlusconi. La terapia, brevetto non proprio originale del dottor D’Alema, consiste nel ritorno ai crismi e ai riti del partito rigido: struttura solida e radicamento territoriale, potere agli apparatchik, stridio di coltelli nelle sezioni e vago sentore di consorteria.
Pazienza che qualche testardo si opponga al cambiamento: per alcuni “niente è più innaturale dell’ovvio”. E pazienza pure che Franceschini si ostini a sventolare la bandiera di Veltroni: “uno sciocco trova sempre un altro sciocco disposto ad ammirarlo”.
Per scovare la bussola smarrita del Pd, lui, Sherlock Bersani, ha impostato la campagna elettorale per le primarie come una grande caccia al tesoro, attingendo a piene mani alla saggezza del più celebre detective d’oltremanica. Si è affidato a una nota agenzia pubblicitaria (già artefice della vittoria di Prodi alle politiche del 2006), ha girato l’Italia in lungo e in largo, da Milano al profondo sud, senza trascurare il minimo dettaglio.
“Tutto può essere importante”, e lui si è speso ai congressi di vecchi partner e futuri possibili alleati, portando un messaggio di distensione e una parola di conforto. E se non tutto è importante, meglio concentrarsi su quello che lo è davvero, tipo assicurarsi il favore dei “signori delle tessere”.
A chi gli faceva notare il divario dal giovane e aitante Franceschini, il nostro ribatteva serafico:”Io sono un cervello. Il resto del mio corpo non è che una semplice appendice”. E poi, come diceva Flaubert, “l’uomo è niente, l’opera è tutto”.
Qualunque sia il suo destino, di Sherlock Bersani resterà la lezione di logica e di metodo investigativo. Se il partito liquido è un’utopia, se il bipartitismo Pd-Pdl è una vana chimera e la pretesa autosufficienza di Veltroni non si può fare, allora ecco servita la soluzione…“Dopo aver eliminato l’impossibile, ciò che resta, per improbabile che sia, deve essere la verità”.
La verità di Bersani è un partito che si muove in un contesto bipolare, che guarda al centro e a sinistra in cerca di alleanze per governare un Paese “strutturalmente” di centrodestra, che sotto sotto strizza l’occhio a un sistema proporzionale e parlamentare puro, dove ogni partito concorre con la propria identità e poi gli accordi (e i governi) si fanno in Parlamento.
Sarà questo, scartata ogni possibile alternativa, il Pd del futuro: un partito che rifiuta l’eclettismo e punta sull’identità,che spinge sulla laicità, frena sull’economia e recupera le sue radici più profonde, cattoliche- popolari e socialiste. Qualcuno obietterà che è più facile a dirsi che a farsi, che un partito social-popolare (o catto-comunista, secondo i maligni) è vero quanto un satiro o un centauro; ma Sherlock Bersani sa bene che “un’adeguata combinazione di realtà e fantasia è alla base di ogni vera arte”.
Finora la sua indagine è stata impeccabile. Franceschini è stato sconfessato davanti agli elettori e poi sbaragliato, a riprova che, nel giallo come in politica, un peccato prima o poi si paga sempre.
Caso risolto, allora? Neanche per sogno! Il difficile comincia adesso e anche il nostro ne è cosciente.
Ha trovato una carica, ora deve trovare il partito.