Bersani fa finta di indignarsi per lo spreco di denaro al Sud
16 Gennaio 2008
di Gianni Donno
“Restituiamo i soldi all’UE, anziché spenderli male, sperperarli”. E’ questa l’ultima uscita del ministro Pier Luigi Bersani, nell’intervista di oggi a “Repubblica”. Il riferimento alla questione napoletana dei rifiuti è esplicito, ma anche altre leggi sono nel mirino del ministro, prima fra le quali la 488. E cioé una legge che l’intero Mezzogiorno ha utilizzato, drenando capitali pubblici, con pochi o nulli risultati, e con un gran numero di inchieste giudiziarie per concussione, truffa, associazione a delinquere ai danni dell’UE.
Bersani, che è la faccia buona e ragionevole dell’Ulivo, arriva a dire di voler concentrare in un unico fondo i finanziamenti europei e di volerli assegnare con criteri rigidi a chi merita.
Ma quando qualcuno, assai più realista, farà notare a Bersani che l’utilizzo, o lo sperpero che dir si voglia, dei fondi pubblici è da sempre lo strumento del consenso nel Mezzogiorno, le cui regioni son tutte o quasi amministrate dal centro- sinistra, che farà il ministro? Manterrà il potere, in ossequio alla vecchia tradizione comunista da cui proviene, o, non riuscendo a fare il buon governo che oggi proclama, premiando i “meritevoli”, sarà costretto a dimettersi? La risposta è facile.
Bersani non può ignorare che nel “caso Napoli”, il dominio politico-elettorale di Bassolino e della sinistra si è formato con fondi pubblici (con regolarità storica ottenuti, grazie alle emergenze regolarmente emerse -o fatte emergere con programmata incuria-) e con le clientele. O Bersani pensa che il consenso elettorale sia stato dovuto a quelli che Bassolino definì i “napoletani onesti”? Con la questione dei rifiuti si è giunti veramente a una resa dei conti per questa demagogia volgare: ormai il moralismo di facciata, profuso a piene mani (in Puglia, da par suo, Vendola si è dichiarato interprete della “Puglia migliore”) si sta infine rivelando in molte regioni del Sud un boomerang per il centro-sinistra. Infatti si son sollevate ed alimentate speranze di rinnovamento, addirittura di Rinascimento, e poi i sistemi di governo hanno ribadito le antiche consuetudini: clientele, corruzione, camorra. Perfetta continuità con il passato, forse anzi affinamento dei metodi, con la splendida costellazione di consulenze, indennità, progetti milionari mai realizzati, ma compensati.
Ecco perché a livello nazionale nessuno più parla della “questione meridionale”, osserva Galli della Loggia, sull’ultimo numero di “Style”. Essa è scomparsa dall’agenda politica. Galasso, sul “Corriere del Mezzogiorno”, condivide e pone numerose domande, concludendo che è compito precipuo dei meridionali, intellettuali e uomini politici, riportare alla pubblica attenzione la questione del Sud, anche se in termini nuovi e diversi. Quali? Galasso non lo dice, ancora.
Si possono aggiungere alcune considerazioni ad integrazione di quanto affermato dai due illustri osservatori.
Primo: perché la questione meridionale è fuori moda? Eppure il Mezzogiorno versa in condizioni simili, se non peggiori rispetto ad un decennio addietro. Risposta: perché la pubblica opinione italiana è satura di problemi del Sud.
Naturalmente non si tratta della pubblica opinione, quale i mass media ritengono di rappresentare. Bensì del sentire comune dell’uomo della strada, di quella consapevolezza diffusa che a poco a poco si forma nella testa della gente: i fondi per il Sud? Soldi buttati al vento o dati ai delinquenti.
I politici hanno colto subito questo mutamento, e tacciono: sanno che sarebbe per loro assai impopolare parlare di “questione meridionale”. Bersani, che è il Garrone nello sdrucito libro Cuore del buonismo prodiano, è più avanti: non tace, ma addirittura s’indigna per lo sperpero del pubblico denaro. Così si presenta come il vero interprete dello sdegno del popolo onesto e produttivo, quello che oggi non vuol sentire più parlare di questione del Mezzogiorno.
Quando l’economia del Nord veleggiava nel lago tranquillo del mercato italiano o, al massimo, europeo, v’era spazio e tempo per interessarsi dei “fratelli sfortunati” del Sud. Furono gli anni d’oro del meridionalismo. Oggi, nel momento in cui il confronto globale costringe a correre, non v’è possibilità di aspettare e, tanto meno, di aiutare i ritardatari di sempre.
Ma la saturazione dell’opinione pubblica, circa la questione meridionale, deriva anche da altri fattori.
Secondo: il Mezzogiorno, nelle sue classi dirigenti (con poche eccezioni) e nel suo mondo produttivo è ormai ritenuto inaffidabile. Qualche residua fiducia nelle capacità del Sud era presente dieci-quindici anni addietro, allor quando le sinistre politiche premevano alle porte dei governi regionali e a poco a poco ne prendevano possesso. Sembrò, come nel caso di Napoli, dovesse aprirsi una nuova stagione, un rinascimento, una primavera, un governo dei “migliori”. Dopo oltre un decennio la delusione è stata massima, a Napoli come in Puglia, ove oggi la Cgil contesta a Vendola di aver fallito in pieno sulla questione sanitaria, che era stata il suo cavallo di battaglia contro Fitto.
Nonostante i governi di sinistra, le regioni meridionali arretrano e vedono nuove emergenze, che si aggiungono alle vecchie irrisolte.
La nemesi radicale negli orientamenti profondi della pubblica opinione, nel comune sentire della gente, si verifica proprio in questi ultimi anni dalla delusione per il fallimento dei governi locali di centro-sinistra.
Il Sud, che nel trentennio post-bellico aveva fornito masse di lavoratori operosi e capaci, per questa ragione meritando, presso la pubblica opinione centro-settentrionale, una sorta di “diritto” ad un aiuto pubblico, per colmare il proprio ritardo, è divenuto oggi inaffidabile.
La questione meridionale è morta, e qualcuno, come Bersani, addirittura infierisce sul cadavere.