Bersani, le liberalizzazioni al contrario

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Bersani, le liberalizzazioni al contrario

23 Marzo 2007

“Processo legislativo che consiste, generalmente, nella riduzione di restrizioni precedentemente esistenti. Tipicamente, ci si riferisce alla liberalizzazione economica, specialmente alla liberalizzazione del commercio e del mercato del capitale.”  Così la più famosa libera enciclopedia on line, Wikipedia, definisce le liberalizzazioni.

La cosa singolare della lenzuolata di Bersani è che, nonostante il nome, non di liberalizzazione si tratta ma del suo esatto opposto. Almeno nel caso delle misure più incisive e più “popolari” – basti pensare all’abolizione dei costi di ricarica dei telefonini e all’abolizione delle clausole penali nei mutui in caso di recesso anticipato – non si tratta di rimozione di vincoli e rigidità al libero dispiegarsi del processo concorrenziale, ma al contrario di introduzione di nuovi divieti alla libertà di iniziativa economica.

Ma il problema non è meramente nominalistico: un convinto liberale potrebbe anche ritenere opportuna l’introduzione di vincoli al mercato se diretti a garantire un suo migliore funzionamento, e quindi a tutelare i consumatori. Certo un liberale ha comunque un innato sospetto verso le interferenze dello Stato nelle dinamiche concorrenziali, ma se vi sono ragioni oggettive a sostegno ben vengano le interferenze.

Le norme di Bersani sono non solo vincolistiche ma soprattutto inutili, se non dannose per i consumatori. In un sistema di mercato, infatti, non ha alcun senso cercare di guidare il comportamento delle imprese, ponendo vincoli autoritativi alle loro scelte di mercato, bloccando solo una delle componenti delle loro tariffe o dei loro prezzi. Le imprese si adatteranno ai nuovi limiti facendo leva sulle altre componenti tariffarie! L’unico risultato che raggiungeremo sarà un aumento del costo degli scatti di conversazione ovvero degli interessi dei mutui che graveranno su tutti i consumatori.

Non occorre del resto il premio Nobel per l’economia per capire che sia i costi di ricarica telefonica che le clausole penali nei contratti di mutuo presentano un ragionevole fondamento nella gestione economica delle imprese. I costi di ricarica servono a compensare l’impresa della gestione di contratti con scarso traffico telefonico; le clausole penali sono utili alla banche per poter pianificare nel medio periodo il ritorno dei propri investimenti in mutui ipotecari.

Con le suddette “liberalizzazioni” si produrrà l’unico effetto di spostare forzosamente una parte dei costi del sistema su categorie differenti di consumatori. Ben altro occorrerebbe fare per liberalizzare il settore del credito o quello dei servizi telefonici. Basti pensare al penoso stato degli assetti proprietari delle nostre banche ancora governate da quelle fondazioni bancarie che il suo inventore – Giuliano Amato – ha recentemente definito dei mostri. O basti pensare alla situazione del settore telefonico dove un processo di privatizzazione condotto in modo assai discutibile ha minato la solidità della principale impresa nazionale.

Se si intende liberalizzare ulteriormente questi due settori occorre aggredire questi nodi. Se invece si vuole proseguire nello statalismo di Bersani occorre andare fino in fondo, rilanciare l’idea di un’economia di piano e porre sotto regime amministrato i prezzi dei contratti telefonici e i tassi di interesse dei mutui!

Il Governo sembra essersi posto a metà del guado, interessato più al plauso a basso costo di alcune categorie di consumatori sensibili (i giovani, grandi consumatori di schede telefoniche ricaricabili, che fanno poche telefonate ed inviano molti SMS) che non all’efficienza del mercato e, quindi al benessere collettivo.

Ma al Governo deve essere riconosciuta, almeno in questo caso, una grande capacità di comunicazione: essere riuscito a spacciare come liberalizzazioni una serie scoordinata di interventi sospesi a metà fra rigurgiti statalisti e pulsioni demagogiche à la Chavèz.

di Antonio Mambrino