Bersani pensa a un manifesto per il 2011 (e a una nuova identità)
29 Aprile 2010
Il Partito Democratico tenta l’ennesima ripartenza e inizia a lavorare al cantiere che nel giro di un anno dovrà definire il nuovo manifesto politico da proporre al Paese. Ma il presente bussa alla porta, con tutte le variabili e le incognite del caso, e così Pier Luigi Bersani si trova a fare fronte al pressing dei big che gli chiedono di definire e puntellare la strategia del partito di Via del Nazareno in vista dei prossimi passaggi politici.
L’idea a cui il segretario, insieme ad Enrico Letta sta lavorando, è quella di stilare il cosiddetto “Progetto Italia 2011”: dieci parole chiave per uscire dall’indistinto e affermare una identità più precisa agli elettori attraverso proposte chiare e comprensibili ad esempio su università e lavoro, cercando di non farsi schiacciare nella difesa della conservazione e delle posizioni corporative. L’idea di fondo è dimostrare che “noi vogliamo i cambiamenti, i conservatori sono quelli della maggioranza” e spostare il terreno dal dibattito dalle eterne contraddizioni del Pd verso tematiche più concrete. In realtà nel caminetto dei big non mancano le perplessità e i dubbi per la navigazione un po’ ondivaga del segretario che prima ha evocato un’alleanza Repubblicana da sottoporre anche all’attenzione di Gianfranco Fini, poi ha dichiarato “profonda sfiducia” nella volontà e capacità della maggioranza di fare le riforme. E i malumori non vengono certo sottaciuti.
Bersani, però, cerca di spiegare la sua linea. Sulle riforme, sostiene, l’uscita di Fini ha mostrato le spaccature “insanabili” della maggioranza, che diverranno ingestibili sulle riforme istituzionali e nei decreti attuativi del federalismo fiscale, quando la Lega farà la voce grossa e uscirà allo scoperto. In ogni caso, visto che una crisi di governo è uno scenario all’ordine del giorno, i big replicano a Bersani chiedendogli di calarsi nel presente e di lavorare subito sull’identità del partito.
Un bisogno sentito sempre più anche dai “coraggiosi” la corrente ormai orfana di Francesco Rutelli che non nasconde la propria preoccupazione per il possibile abbandono del progetto originario del Pd a favore di una riedizione aggiornata e corretta dei Ds. Di questo gruppo fanno parte parlamentari come Paolo Gentiloni, Roberto Giachetti, Ermete Realacci, Luigi Bobba, Andrea Sarubbi, Maria Paola Merloni, i senatori Luigi Zanda, Luigi Lusi, Maurizio Fistarol, Maura Leddi, Roberto Della Seta, Francesco Ferrante, Mauro Marino, nonché diversi consiglieri regionali, come i laziali Mario Di Carlo e Bruno Astorre (tra i fuoriusciti ci sono invece Gianni Vernetti, Linda Lanzillotta e Donato Mosella passati con Rutelli e Renzo Lusetti e Paola Binetti confluiti nell’Udc). Ebbene all’interno di questa componente il dibattito sta crescendo di tono, con le critiche sempre più veementi di Maurizio Fistarol che non esclude una possibile separazione consensuale tra la sinistra conservatrice e i riformisti. Oppure con gli inviti alla riflessione di Ermete Realacci che non si nasconde dietro a un dito e dice apertamente che se il Pd rinuncia a rappresentare tutte le culture e si riduce ad essere un grosso partito di sinistra che fa poi alleanze con dieci partitini, allora conviene fare un proprio partitino per poter far pesare la propria cultura, pur senza mettere in discussione il bipolarismo come fatto da Rutelli. I “coraggiosi” si sono dati appuntamento al seminario della componente che si terrà a Cortona dal 7 al 9 maggio. Un luogo politico in cui verrà redatto un documento di quattro-cinque punti su cui il Pd dovrà prendere posizione e dirimere alcuni nodi legati al proprio dna di fondo.
Sullo sfondo, come inevitabile conseguenza della sconfitta elettorale, crescono le tensioni sul territorio. In particolare al Sud, come denuncia il deputato Franco Laratta, “il partito sta letteralmente scoppiando. Vi sono regioni meridionali dove nel Pd è scoppiata un regolamento di conti senza esclusioni di colpi.
Tra chi tenta di conservare l’esistente, chi non accetta le ragioni della terribile sconfitta elettorale, chi si azzuffa per afferrare le ultime briciole del potere, il partito ne esce a pezzi, mentre nessuno vuole capire che è necessaria una drastica rottura con il recente passato e con i decennali potentati che hanno bloccato e continuano a bloccare l’urgente svolta. E’ il caso della Calabria, regione in cui il Pd è uscito letteralmente dimezzato dal voto. Regione in cui la guerra interna e’ durissima, con il rischio che il Pd esploda in mille pezzi”. E mentre la repubblicana Luciana Sbarbati lascia il gruppo del Pd per aderire a quello dell’Udc, proprio in seno ai centristi inizia una riflessione sul risultato elettorale. A lanciare il sasso ci pensa il responsabile Enti locali, Maurizio Ronconi che detta un interrogativo sulla politica delle alleanze. “L’Udc dovrà valutare il deludente risultato ottenuto là dove si è alleata con il Pd. Nell’Udc hanno prevalso gli elettori che preferiscono l’alleanza con il centrodestra o, al massimo, una riconfermata equidistanza dai poli; non certo alleanze con il Pd. Ora ci sarà da capire se il risultato deludente sia conseguenza della timidezza del Pd incapace a sciogliere definitivamente il sodalizio con Rifondazione comunista oppure a una osticità strutturale dell’elettorato dell’Udc a votare a sinistra”. Un tema non da poco conto sul quale la leadership di Via Due Macelli dovrà inevitabilmente confrontarsi, dipanando la tela delle alleanze a medio termine.