Bertinotti e la lenta agonia di un Governo fallito

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Bertinotti e la lenta agonia di un Governo fallito

Bertinotti e la lenta agonia di un Governo fallito

06 Dicembre 2007

Ci sono molte differenze tra la
crisi del primo governo Prodi nel 1998 e la recente dichiarazione di Bertinotti
sul fallimento del governo in carica, sempre condotto da Romano Prodi. Tra le
tante, una differenza di significato consiste proprio nelle finalità.

Se nell’ottobre del 1998
Bertinotti si sfilò nella convinzione di dare significato e sostanza ad un
progetto politico di rottura ed alternativo all’Ulivo, questa volta la denuncia
del fallimento serve a porre fine all’agonia di una maggioranza scollacciata ed
incapace di assumere iniziative condivise.

Nel 1998, con lo strappo,
Bertinotti ed il suo partito della rifondazione comunista reagivano al pericolo
di restare schiacciati nello sviluppo di un programma riformista di impronta
essenzialmente eurocratica che si andava delineando. Un’azione di governo con
prevalenza di indirizzi su scelte finanziarie e di mercato, con l’attenzione ai
conti ed alle compatibilità della spesa. I comunisti di Bertinotti allora reagirono
al pericolo di doversi misurare con interventi di tagli alla spesa e di
macelleria sociale che sarebbero serviti a preparare il Paese alla svolta
europea. La mossa dell’attuale Presidente della Camera, nel 1998 emerse dalla
convinzione che la base comunista non avrebbe compreso né l’adozione di
parametri rigidi per l’introduzione della nuova moneta e neanche i prevedibili
controlli sulle politiche della spesa.

Questa volta, dopo le difficoltà
create al Senato dalla pattuglia di Dini e dai dissidenti Manzione e Bordon, è
sopraggiunta invece la convinzione che niente potrà più essere come prima
nell’Unione.

Avvertendo i mugugni della base,
Bertinotti trae così la consapevolezza che restare fermi può solo portare al massacro
da parte dall’antagonismo militante e può favorire il disperdersi, a vantaggio dei
movimenti dell’antipolitica, della primogenitura del dissenso e della lotta al
sistema.

Chiudersi a difesa del governo di
Prodi, soprattutto nella prospettiva del consolidamento dell’identificazione
del governo nel progetto del PD, per il capo storico dei neo comunisti comporta
il pericolo di non poter più esser credibile come leader di  un movimento di lotta e di governo, e di
rendere altresì non credibile la stessa Rifondazione Comunista come partito di confine
e fabbrica attiva per l’elaborazione delle proposte per le diversità. Il
Partito di Bertinotti ha l’esigenza di mantenere il suo protagonismo e di
riposizionarsi nel suo spazio di funzione critica ed alternativa alle
globalizzazioni ed alle strategie diplomatiche sugli scenari internazionali.

Come allora Bertinotti ed il
Partito della Rifondazione Comunista poteva rinunciare a ritenere fallito il
progetto dell’Unione?

La nascita del Partito
Democratico, in verità, ha contribuito a creare ulteriori scompensi nel
centrosinistra. Molte più difficoltà: più di quelle già presenti per la
mancanza di coesione programmatica. Se alla criticità delle convergenze sulle
scelte, soprattutto in campo sociale ma anche sugli obiettivi per la crescita e
lo sviluppo, legati alle politiche fiscali ed agli interventi sulla
competitività, una volta si contrapponevano le ragioni dello stare insieme,
come spesso si andava sostenendo, per battere Berlusconi e scongiurare il suo
ritorno al Governo, la nascita del PD ha creato una reazione a catena e molte
fibrillazioni nei piccoli partiti.

La maggior parte delle formazioni
minori, senza marcata identità, prive persino di radici storiche nella
tradizione popolare, senza precisi riferimenti territoriali, rischiano ora di
veder dissipare l’appeal più squisitamente personale che politico. E’ opinione
diffusa, infatti, che possa prevalere l’attrazione dell’elettorato alla logica
dei grandi numeri ed esiste nel Paese una sensibile voglia di semplificazione
della politica.

Bertinotti, da politico astuto,
ha avvertito questa difficoltà. Ha meditato sull’immagine del suo partito
appiattito sul Governo ed apparso spesso moderato e prudente nel sopportare
sacrifici e rinunce per non farlo cadere, ed è ora convinto che Prodi abbia
ormai vita breve.

Ma più che rendersi responsabile
ancora una volta della caduta di Prodi, togliendo la fiducia all’unica
maggioranza parlamentare che potesse scongiurare il ritorno alle urne con la conseguente
vittoria certa del centrodestra e di Berlusconi, quale modo migliore aveva
Bertinotti per prendere le distanze da questo esecutivo? La risposta è: dichiararlo
fallito e proporre la disponibilità ad un diverso esecutivo, d’impronta
istituzionale, che possa traghettare il Parlamento all’approvazione della riforma
della legge elettorale ed alle modifiche costituzionali. Tutto concorda!

Dal suo punto di vista è la cosa
più intelligente che il Presidente della Camera potesse fare. La sinistra ha da
intraprendere un percorso di unificazione. E’un tragitto che si presume lento e
complesso. L’obiettivo di Bertinotti è una riforma elettorale sul modello tedesco,
con sbarramento al 5%: una soluzione che rende inevitabile la convergenza sulla
“cosa rossa”.

Il nuovo soggetto politico
potrebbe così presentarsi alle elezioni in modo autonomo e giocarsi la
possibile partecipazione ad alleanze, su programmi concordati, dopo le
elezioni.