Bertinotti un po’ Arcangelo e un po’ Satanasso

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Bertinotti un po’ Arcangelo e un po’ Satanasso

15 Giugno 2007

Una delle caratteristiche più urtanti della political culture italiana è la “complicità” ovvero l’atteggiamento disincantato di chi dinanzi alle forme più radicali dello scontro politico pensa che non sia il caso di allarmarsi giacché un conto è il palcoscenico altra cosa sono le quinte e i camerini. Per citare il geniale giudizio di Tocqueville su Luigi Filippo, la cultura della complicità è propria di una borghesia priva di spina dorsale che non si preoccupa della casa in fiamme perché ne ha in tasca le chiavi. Tempo fa un radical chic della “Genova bene” , sul maggiore quotidiano cittadino, parlando del presidente comunista della Regione Liguria, fece ricorso al più cretino dei topoi “complicistici”: “ce lo vedete voi il compagno ** imbracciare il mitra sulla Sierra andina?”. Se fosse vissuto in Francia alla vigilia della Grande Rivoluzione e qualcuno gli avesse detto che quell’avvocatino con le culottes e la parrucca incipriata, che aveva rinunciato, nel marzo 1782, alla carica di giudice criminale per la diocesi di Arras, conferitagli dal vescovo de Conzié, per non dovere pronunciare una condanna a morte, covava dentro di sé il progetto di demolizione dell’ancien régime, dei suoi simboli e delle sue istituzioni, probabilmente avrebbe scrollato le spalle con l’ aria di chi la sa lunga: “ce lo vedete voi Maximilien Robespierre….”.

Oggi, su giornali come Repubblica e nei salotti virtuosi, vengono fornite le stesse rassicurazioni su Bertinotti. Uno che veste come lui, che ha la erre moscia, che parla in maniera così forbita – magari attribuendo a San Bernardo di Chiaravalle la nota frase di Bernardo di Chartres “siamo nani sulle spalle di giganti”! – che si richiama a Gandhi e alla non violenza, quale pericolo può mai rappresentare per la democrazia liberale? Per Edmondo Berselli, Bertinotti, “socialista non marxista” ha decomunistizzato Rifondazione Comunista e, svolgendo le sue funzioni di terza carica dello Stato, ha mostrato un alto senso delle istituzioni. Come ho fatto rilevare di recente sul Secolo XIX, anche Guevara e Castro non avevano le carte in regola col marxismo ma questo, ben lungi dal farne dei veri democratici, li allontanava ancora di più dall’Occidente liberale.

In realtà, Bertinotti appartiene al mondo dei Frantz Fanon, dei Serge Halimi (si veda la sua Prefazione al libro di quest’ultimo, Il grande balzo all’indietro: come si e imposto al mondo l’ordine neoliberista, Roma: Fazi, 2006), delle Rossane Rossanda, di quella sinistra “libertaria” (sic!) che criticava il burocratismo sovietico in nome di un totalitarismo ancora più spietato e sanguinario, quello di Mao Tse Tung. Stando, invece, ai suoi apologeti, di estremistico gli sarebbe rimasto ormai solo lo stile e, d’altra parte, bisogna capirlo, certi comportamenti fuori le righe sono utili per “non perdere il contatto con la base”.

In questo gioco di astuzie e di ammiccamenti, si ritiene legittimo predicare la rivoluzione e razzolare comodamente nelle istituzioni, tenere le masse sempre in fermento ma con l’arrière pensée di frenarle al momento opportuno, di essere al contempo governo e piazza. Col risultato paradossale che coloro che più invocano l’eticizzazione della politica – la famosa “questione morale”degli anni berlingueriani – ritengono del tutto normale la più esecranda colpa morale, il gap tra il “dire” e il “fare”, tra l’essere e l’apparire. Non li preoccupa il fatto che se Bertinotti fosse davvero così rassicurante per i repubblicones borghesi, i suoi elettori sarebbero vittima di un raggiro, come i seguaci di Masaniello quando venne portato nel palazzo del potere e rivestito di abiti principeschi.

La realtà è un’altra e i Berselli, i Gad Lerner, gli Scalfari, quelli di pas ennemis à gauche fingono di non vederla: c’è una differenza abissale tra l’entrismo e il riformismo, tra un movimento radicale che, a un certo punto, decide di entrare nella stanza dei bottoni per mettere le mani sul “sistema” e un movimento socialdemocratico che si assume responsabilità di governo per rafforzare le istituzioni democratiche facendole poggiare su una più larga base sociale. Alla borghesia mollacciona interessa ingarbugliare le acque e pensare che le fedi ideologiche espressamente proclamate siano “parole al vento” e che coi loro banditori ci si possa sempre accordare sottobanco, semmai agitando, per gli accoliti delusi dai compromessi coi vecchi nemici di un tempo, il vessillo dell’antifascismo, un fantasma che, nel nostro paese, molto probabilmente, sopravvivrà alla stessa differenza sessuale.

E del resto, in tema di fascismo, come non ricordare quanto danno fece, alla vigilia della marcia su Roma, la “cultura della complicità”? Mussolini? Lasciatelo sbraitare, al momento opportuno, gli daremo qualche ministero e quei quattro scalzacani in camicia nera faranno ritorno alle loro case!”. Fu il più tragico scambio di persona tra l’entrismo e il riformismo!

Non tocca allo studioso delle ideologie e delle forme di governo, proporre ricette ma di una cosa, però, resto convinto: non può esserci “società aperta” senza “la filosofia della società aperta”. Le concezioni del mondo non sono, come pensavano i vecchi idealisti, il motore della storia ma non sono neppure mera sovrastruttura, fantasmi mentali che si dileguano nella concreta prassi di ogni giorno. Se si va al governo senza una “cultura di governo”, i conflitti sociali, lungi dal sanarsi automaticamente, vengono esasperati e approfonditi, giacché l’estremista divenuto ministro, per non essere delegittimato dalla ‘base’, è costretto a “fare qualcosa di sinistra” e, poiché non gli viene concesso oltre un certo limite, finisce per contribuire all’antipolitica, alla sfiducia nelle istituzioni, alla scelta comunque perdente tra il ritiro dall’arena politica e l’invasione rabbiosa dello stadio.

Si può collaborare con i “partiti borghesi” quando se ne condividano sostanzialmente i valori etico-politici di fondo ma non altrettanto l’ordine d’importanza. E’ allora che, in mancanza di maggioranza parlamentare, ci si può accordare con gli avversari su concreti punti programmatici e alla luce del sole. Lo spettacolo dell’Arcangelo e di Satanasso, in una stessa compagine governativa, al contrario, è segno inequivocabile di quella vecchia, cenciosa, astuzia italica che non ci ha mai portato fortuna.