Biancaneve, i carrarmati e il Signor G

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Biancaneve, i carrarmati e il Signor G

31 Luglio 2011

A Roma, accanto alla Basilica di Santa Croce in Gerusalemme c’è un grande magnifico spazio compreso fra le mura Aureliane, l’acquedotto Felice e l’anfiteatro castrense. Un frullato di archeologia, natura e storia, perché qui dentro, oltre a imponenti ruderi romani e un bel prato, c’è il museo degli strumenti musicali, il museo dei granatieri e quello della fanteria.

Dunque: fra il 18 e il 24 luglio, una settimana di proiezioni organizzata dal Centro Sperimentale di Cinematografia, con i due musei militari, per un festival intitolato “Santa Croce Effetto Notte”. Niente di nuovo; il cinema all’aperto è da sempre un riempiserate estivo. I film: tutti classici italiani del passato, tranne uno, del 2010, “Noi credevamo”, di Mario Martone. Un grande affresco del risorgimento italiano dalla parte del popolo. Prima del film, breve incontro con gli attori Lo Cascio, Binasco, Inaudi, i quali hanno raccontato la loro difficoltà a imparare le battute della sceneggiatura, tutte rigorosamente in un arcaico dialetto cilentano dell’Ottocento.

Loro avranno certamente faticato a impararle, noi spettatori invece abbiamo dovuto rinunciare a capirle. Era come vedere un film coreano non doppiato. Aggiungiamo il colore scurissimo della fotografia, le frequenti atmosfere notturne, gli effetti sonori fragorosi. Insomma uno strazio autolesionista, tanto è vero che a metà proiezione metà pubblico, noi compresi, aveva tagliato la corda.

I musei militari erano aperti per l’occasione; allora ci siamo messi a gironzolare per le sale, ma soprattutto negli spazi esterni dove avevano piazzato cannoni, mitragliatrici e carri armati. Ce n’erano due, italiani dell’ultima guerra in Africa. Da ridere. Scatolette più piccole di una Smart, con una corazza che a batterci sopra suonava come una scatola di Simmenthal. E lì vicino un carro americano della stessa guerra. Gigantesco. Quello si che faceva paura. Andare in guerra con una simile attrezzatura! E’ finita come c’era da aspettarsi.

E qui viene il richiamo al titolo. Perché appoggiati a terra, civettuoli, davanti a ogni carro armato, cannone, proiettile, facevano la loro ridicola figura degli striminziti vasetti di fiori: due petunie davanti al mortaio, una verbena di fianco all’antiaereo. Come se la massaia comandante, appunto Biancaneve, avesse sentito il bisogno di ingentilire con un tocco disneyano, l’inaccettabile look marziale delle armi. E non è un caso unico. All’ingresso di qualsiasi zona militare, fateci caso, bamboleggiano fioriere e ben potate siepi di biancospino. Ma perché? Si tratta di soldati, armi, attrezzatura da guerra, roba forte; non di asili nido.

O l’esercito lo si smobilita, e allora ok alla trasformazione delle caserme in musei o scuole. O, se la faccenda continua, rispettiamo il ruolo e non ridicolizziamolo mettendo dei fiori vicino ai nostri cannoni, bellissimo slogan del ’68 (leggermente modificato), del tutto fuori luogo in questi casi.

Facciamo adesso un salto verso il mare. Il 2011 è il quarantesimo anniversario del debutto milanese de “Il Signor G”. A Viareggio è esploso sabato e domenica 23 e 24 il Festival Teatro Canzone Giorgio Gaber. Un evento organizzato in grande, in primo luogo per il posto, la Cittadella del Carnevale, uno spazio che sembra Cape Canaveral. Un semicerchio di enormi hangar dove riposano i famosi carri allegorici, e al centro un grande palcoscenico e platea di tremila posti.

Poi per il livello degli ospiti, che, a quanto ci hanno detto, lavorano tutti gratis in omaggio al sommo Gaber. Ci sono passati da Dalla a Zero a Baglioni. Quest’anno i big erano Ornella Vanoni, la PFM, Ruggeri, e altri. Sorprendente fra i meno big Marco Mengoni, un personaggio di strabiliante ma molto attraente disumanità per il modo di cantare, di muoversi, per il trucco, per l’espressione degli occhi che ne fanno una specie di essere virtualmente reale (o realmente virtuale). Altrettanto sorprendente, ma in senso opposto, Cristiano De Andrè, che cita continuamente (usurpando applausi, di famiglia, sì, ma non proprio suoi) il grande Fabrizio nelle presentazioni dei brani, nei frammenti autobiografici, e soprattutto nel modo di cantare. Poveri questi figli che non riescono a liberarsi dell’ombra dei padri.

L’organizzazione è stata perfetta, i buffet succulenti, le navette in orario e il grande burattinaio della manifestazione, Paolo Dal Bon, un ospite superlativo, un principe rinascimentale. Perché allora sentiamo la voglia di punzecchiare questo evento?

Ci sono alcuni dettagli dello spettacolo che ci costringono a tirare fuori i denti avvelenati. Non riguardano i musicisti, ma gli altri. Ci chiediamo perché comici affermati e di sicuro mestiere come Giobbe Covatta, presente tutte due le sere, o il nuovo Maurizio Lastrico, geniale improvvisatore in terzine dantesche su qualsiasi argomento, non riescano a fare a meno di farcire le loro battute (che non ne avrebbero nessun bisogno, perché sono pronte, intelligenti e acute) di merda (molte volte Covatta), di flatulenze e corse al gabinetto (ancora Covatta, e parlando come Dante nel dugento, anche Lastrico) di peli, con immaginabili riferimenti, e alla fine, proprio come battuta di chiusura, Lastrico ci ha anche regalato la FIGA!

Naturalmente la gente si sganascia. È l’infantilismo del pubblico che nell’anonimato della platea regredisce e rinuncia alla maturità dell’ironia, per riempirsi le orecchie dell’altra pietanza che abbiamo appena citato.

Cosa augurarci? Certo non è facile rinunciare a un pubblico facile, ma chi ha il microfono in mano, potrebbe, attraverso la scelta delle parole che usa, selezionare gli applausi, perderne magari qualcuno, ma guadagnare in buon gusto ed eleganza. E anche in dignità professionale. Utopia?

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L’archivio del Cavalier Serpente, o meglio la covata di tutte le sue uova avvelenate, sta al caldo nel suo blog. Per andare a visitarlo basta un click su questo link: http://blog.libero.it/torossi