Birmania, l’opposizione continua a chiedere aiuto all’Occidente

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Birmania, l’opposizione continua a chiedere aiuto all’Occidente

24 Dicembre 2007

Una
disperata richiesta d’aiuto, di preghiera. Alcuni cattolici del Myanmar,
costretti a mantenere l’anonimato, hanno fatto pervenire all’agenzia di stampa
Asia News – vicina al Vaticano – un appello a Benedetto XVI perché in occasione
del Natale “continui a pregare” per il popolo birmano e “contribuisca a non far
dimenticare al mondo le sofferenze del nostro paese”. L’appello, ripreso anche
dall’“Osservatore Romano”, è stato seguito da quello di alcuni buddisti birmani
esuli in Thailandia: la richiesta è la stessa, che l’Occidente non dimentichi
la tragedia birmana e mantenga accesi i riflettori sul sud-est asiatico.
 
La disperazione è comprensibile perché – anche se i media ne parlano sempre
meno – nell’ex-Birmania gli abusi da parte della giunta di Than Shwe restano
molteplici. Un esempio? Pochi giorni fa, tre abitanti di Monywa sono stati
condannati a due anni e mezzo di carcere: l’accusa, terribile, è quella di aver
fornito della “pericolosa” acqua ai monaci impegnati nelle proteste di questo
autunno.

 Incredibili testimonianze giungono poi da Asia News. Kyaw Lin Aung ricorda
quello che ha visto e sentito raccontare dai parenti: “Gli spari contro i bonzi
che recitavano preghiere di amore e pietà a Pakokku, gli incendi ai monasteri
che si sono schierati contro il governo, ma anche i racconti di corpi di
manifestanti bruciati nei forni crematori o sepolti in tutta fretta per
alterare le reali cifre della repressione”. Sedate le proteste di agosto e
settembre, la Birmania
sembra essere ora un’enorme prigione a cielo aperto: “Nel Paese girano spie
travestite da monaci che contribuiscono all’arresto di giovani attivisti e
religiosi buddisti – racconta Kyaw – nelle carceri questi vengono torturati e
viene negata loro l’assistenza medica”. Inutili anche gli interventi della
comunità internazionale: “È  successo anche che dopo le pressione di Onu e
Usa a liberare i detenuti, prima di liberarli, i carcerieri hanno fatto
iniezioni con virus letali per far morire i manifestanti una volta tornati a
casa ed evitare così ogni critica o responsabilità”.

Nay Zey Tun, altro testimone, parla invece della drammatica situazione degli
ospedali statali, dove mancano le più elementari forme di assistenza. “Diversi
mesi fa ho assistito mio padre ricoverato per una settimana e mi sono ritrovato
a fare l’infermiere per altri pazienti: c’era una donna che doveva partorire e
nessuno la aiutava, si è poi scoperto che il suo bambino era morto già da 10
giorni e nessuno se ne era accorto”. Nay arriva alla conclusione che, dovendo
scegliere dove morire, in Birmania la casa è più sicura delle strutture
ospedaliere.

Nay Zey Tun non si fa illusioni: è ben consapevole dell’inutilità degli sforzi
internazionali, almeno finché la
Cina non toglierà il suo sostegno a Than Shwe. “Pechino sta
praticamente colonizzando le nostre terre: le ditte cinesi delocalizzano le
loro imprese in Myanmar, perché la manodopera costa ancora meno che in patria.
Inoltre sfruttano il nostro territorio senza criterio, appropriandosi delle
risorse energetiche e delle materie prime”.

Se la giunta può infatti continuare imperterrita sulla strada
dell’intransigenza, dichiarando pubblicamente (come ha fatto in una conferenza
stampa a inizio dicembre) che l’ordine e l’armonia sono stati ristabiliti – e
che per la stesura della Costituzione non c’è alcun bisogno dei consigli
dell’opposizione –, gran parte del merito va al sostegno cinese.

Piero Fassino, inviato speciale dell’Unione Europea, è volato a Pechino nel
tentativo di ammorbidire la posizione del governo. Il 18 e 19 dicembre ha
incontrato due personaggi di secondo piano (l’assistente del ministro degli
Esteri e il capo del Dipartimento internazionale del Partito comunista), ma i
risultati non sono stati confortanti: “Durante i miei incontri – ha dichiarato
– le autorità cinesi hanno chiarito che il futuro circa la crisi birmana è
nelle mani dei birmani stessi”. Insomma, la posizione di Pechino (da settembre
a questa parte) non si è mossa di un millimetro: gli affari della Birmania
vanno lasciati alla Birmania, scordatevi sanzioni o anche solo pressioni da
parte nostra su Than Shwe. Fassino, che aveva chiesto senza successo di poter
visitare il Myanmar a fine anno, ha ora reiterato la richiesta per i primi mesi
del 2008: si attende il sì dei generali.

Mentre in Birmania la popolazione fa quel che può per contrastare il regime e
aiutare i dissidenti – con donazioni spontanee di sangue e proteste del partito
d’opposizione –, la comunità internazionale cerca altre vie per farsi sentire,
almeno formalmente. Senza la collaborazione di Pechino non si va da nessuna
parte, certo, ma questo non impedisce di tenere alta la pressione sulla giunta.
 
Tra le iniziative internazionali spicca quella del segretario generale delle
Nazioni Unite Ban Ki-moon che, alle soglie del Natale, ha istituito un “gruppo
di amici” per discutere della situazione birmana. I quattordici membri del
gruppo sono Australia, Indonesia, Russia, Stati Uniti, Cina, Giappone,
Singapore, Vietnam, Francia, Norvegia, Thailandia, India, Portogallo e Gran
Bretagna e il loro compito è quello di tenere saltuarie riunioni informali,
quando la situazione sul campo lo richiederà. Stando alle dichiarazioni di un
portavoce di Ban Ki-moon, il gruppo dovrà essere un sostegno politico alle
azioni dell’inviato delle Nazioni Unite Ibrahim Gambari: cosa ci facciano nel
gruppo Cina e India, a questo punto, resta un mistero.
 
Forti critiche al regime vengono poi dagli Stati Uniti. La first lady Laura
Bush ha preso a cuore la questione birmana sin dalle prime proteste. Lo scorso
lunedì, dopo aver parlato direttamente con Gambari, Laura Bush ha ricordato a
gran voce che “la giunta non ha fatto passi soddisfacenti nella direzione
dell’incontro e del dialogo con gli attivisti democratici, anzi ha continuato a
perseguitarli e arrestarli”.
 
A darle manforte, con considerazioni maggiormente accademiche, due professori.
Secondo David Steinberg (direttore degli Studi Asiatici dell’Università di
Georgetown, appena tornato da una visita sul campo), “a meno che non ci siano
cambiamenti nella società, ci saranno altre dimostrazioni innescate da alcuni
incidenti ma basate su questi profondi problemi”. Sean Turnell, professore di
Economia all’Università australiana di Macquarie, ricorda invece che “i
problemi restano gravissimi, ed è difficile essere ottimisti sull’immediato
futuro della Birmania”.