Bob Dylan, il menestrello con la voce di Donald Duck
17 Maggio 2009
Hibbing è una piccola cittadina del Minnesota. Potrebbe essere un posto qualunque in una qualunque parte dell’America, se non fosse che, d’inverno, diventa anche uno dei posti più freddi d’America. C’è una grande miniera di ferro, da dove gli operai ricavano la taconite, e poco altro. La famiglia Zimmerman, ebrei di origine lituana emigrati negli States dopo i pogrom dei primi anni del novecento, si trasferì qui esattamente nel 1948. Abram Zimmerman a quei tempi lavorava nella Standard Oil Co.
Questa piccola casetta azzurra a vederla non gli dareste due lire, eppure rimane pur sempre “Casa Zimmerman” in Bob Dylan Drive. E qui, infatti che Robert Allen Zimmerman, in arte – appunto Bob Dylan – iniziò a strimpellare il piano e poi la anche la chitarra acustica. È qui che il piccolo Robert passava ore e ore ad ascoltare i suoi musicisti preferiti, Hank Williams, Woodie Guthrie, Muddy Waters o Elvis Presley, che gridavano al mondo i loro anatemi rock and roll o le loro melodie country. In quelle quattro mura, quindi, si sono decisi cinquant’anni di musica e cultura popolare americana, visto che il “menestrello di Duluth” è considerato uno dei musicisti più rivoluzionari di tutti i tempi e visto anche che il suo carattere anticonformista e le sue frasi al veleno sono da sempre al centro dell’attenzione dei media.
L’America degli anni cinquanta, invece, è sconfinata, altro che Duluth o Hibbing. Ha combattuto la Grande Guerra e ne è uscita vincitrice. I suoi soldati – chi in piedi chi dentro una bara – sono tornati alle case di campagna nell’Illinois, nel New Jersey, in Connecticut, nel Maine o nel Texas. L’economia va, la gente compra le macchine e gli elettrodomestici, ma sono in molti a parlare di fine dell’American Dream. Eppure questo è un periodo d’oro per la letteratura, tra Hemingway, Faulkner, Truman Capote e Salinger e nonostante il maccartismo imperante, anche Jack Kerouac. Lo stesso Dylan, fa parte di questa generazione, d’altronde è un letterato pure lui.
Bob Zimmerman, quindi, profondamente americano – seppure i suoi avi russi emigrarono non più tardi di un secolo fa nella Mesabi Iron Range – ma così profondamente internazionale. Un’artista di tutti, ma anche uno poco avvezzo alle moine, “just because you like my stuff doesn’t mean I owe you anything” (solo perchè vi piace la mia roba, non vuole dire che io vi debba qualcosa) era la battuta con la quale si congedava dai suoi fan più invadenti. Bob Zimmerman nacque a Duluth, un’altra piccola cittadina del Minnesota il 24 maggio del 1941 e trascorse li i suoi primi sei anni di vita, fino a che suo padre non si ammalò di poliomelite. Allora la famiglia Zimmerman si trasferì a Hibbing, dove già vivevano i parenti di sua madre Beatrice “Betty” Stone, figlia di Ben Solomovich uno dei primi abitanti di questa piccola cittadina fondata per fornire alloggio ai minatori di una delle riserve di ferro più grandi d’America.
“Quando avevo dieci anni ho trovato una chitarra, nella casa che aveva comprato mio padre, e ho trovato anche qualcos’altro li dentro, qualcosa di mistico: c’era una grande radio di mogano con un giradischi…un settantotto giri, un giorno l’ho aperta e cera dentro un disco: Too Far From the Shore, dei Drifiting, il suono di quel disco mi ha fatto sentire come se fossi stato qualcun altro e che forse non ero nemmeno nato dai giusti genitori”, racconta Dylan nel film di Martin Scorsese, “No Direction Home”.
Infatti, il Padre e il fratello di Robert a un certo punto avevano aperto un negozio di elettrodomestici e il suo primo impiego consisteva nello spazzare il locale e imparare la disciplina del duro lavoro. Questa vita da caserma lo portò perfino pensare di arruolarsi nell’esercito per finire nientemeno che a West Point, l’accademia militare. Intanto, però, la musica country, il blues e il rock and roll, passando dalla radio di mogano e poi dalle corde della sua chitarra, gli entravano in testa. Non sarebbero più uscite se non sotto forma di canzoni e ballate. Pezzi bellissimi e rivoluzionari, cantati con la sua voce nasale e volutamente poco scolastica e con testi ammicanti, taglienti e complicati. Canzoni stupende. Il piccolo Zimmerman aveva una “mente molto agile” come lui stesso ammette, poteva “rifare una canzone ascotandola magari anche una volta sola”. In gergo musicale questa qualità si chiama “orecchio assoluto”, una caratteristica comune a molti grandi cantautori o musicisti.
Gli anni al liceo di Hibbing passano presto, e Robert forma diversi gruppi, i più dei quali senza troppa storia a dire il vero, come i The Shadow Blaster. Con i The Golden Chords, invece, almeno si fece sentire, visto che mentre suonava al ballo del liceo la cover dei Danny and the Juniors, “Rock and Roll is Here to Stay”, il preside staccò il cavo del microfono per quanto era alto il volume.
A un certo punto, quando aveva vent’anni, Robert incontra un vate, una guida per la sua ispirazione, si tratta di Woodie Guthrie: “non riuscivo a credere a quello che faceva questo tizio, lo potevi ascoltare per ore e alla fine ti insegnava a vivere”.
Il rapporto con Guthrie iniziò in maniera morbosa, a Minneapolis, mentre Dylan era all’università e studiava la musica folk. Robert si trova a casa di Paul Nelson, un suo amico, cultore come lui di questo genere di musica in possesso di una vasta collezione di dischi rari e introvabili. Fatto sta che Paul a un certo punto parte e lascia Bob da solo a casa sua per due giorni. Dylan non resiste alla tentazione e alla fine “prende in prestito” come ebbe poi a giustifircarsi, 25 dischi. Solo che non lascia detto niente, nemmeno un biglietto, e nessuno sa dove abita. Quando Paul torna a casa si accorge che nella sua collezione mancano un bel po’ di pezzi e si mette alla difficile ricerca del suo amico-cleptomane.
Ci vuole un po’ di tempo, ma comunque alla fine Paul e i suoi amici trovano il ladro dentro una stanza, circondato dalla refurtiva. A quel punto Paul prova ad assalirlo e lui si difende con le parole, con domande e osservazioni interessanti in merito ai dischi di Guthrie e agli altri che ha preso in prestito, giura che li avrebbe riportati indietro e cose così. Insomma, in un modo o nell’altro i due si ritrovano a discutere di musica, e il nostro Bob “the Rob” Zimmerman se la cava così. In fondo, anche nel resto della sua vita gli capiterà di cavarsela con l’eloquenza. Come durante quella famosa conferenza stampa di “Cisco”, nel 1965, quando un reporter gli chiede che cosa rappresenta la motocicletta nella sua immaginazione, perchè, dice testualmente il giornalista: “mi sembra che ti paccia quella moto”. Dylan risponde laconico, “well, we all like motorcycles to some degree” (beh ci piacciono a tutti le motociclette, almeno un po’).
Uno fantastico paroliere. Anche uno studente brillante, ma non dotatissimo, e non certamente portato per lo studio a oltranza, il giovane di Duluth a un certo punto prende una decisione secca e si trasferisce a New York.
Ma con Guthrie non finisce così. Robert, infatti, si mette sulle sue tracce e in poco tempo lo trova: il suo idolo si trova al Brooklyn State Hospital, con una grave malattia, dalla quale non guarirà. In quel letto d’ospedale, però, Woodrow Wilson Guthrie, incontra il suo erede che gli canta le sue stesse canzoni e in qualche modo gli allieta gli ultimi giorni di vita. A Robert, la prima volta che lo vide, tremarono le gambe.
C’è un altro incontro che decide la vita del giovane folk-singer, quello con Joan Baez, che diventa una sua collega, amica e qualche volta amante. Robert Zimmerman, più in la cambierà il suo nome in Bob Dylan (molti dicono che si tratti di un omaggio al suo poeta preferito, anche se lui stesso ha ammesso che è soltanto un nome che “suona bene”). La collaborazione artistica con la Baez, comunque, si fa fruttuosa e Dylan più in la dirà di lei: “Joan era incredibile, tutta per il folk, era una conversatrice molto interessante”.
Poi “Dylan hits the Village” il Greenwich Village, nel Lower West Side di Manhattan, il quartiere in cui già dalla fine degli anni cinquanta potevi trovare più pub, caffè, bar, discoteche, sale da ballo e strip club di ogni altra parte d’America. Dylan e il Village erano destinati ad incontrarsi inevitabilmente. E’ qui che il cantautore inzia ad esibirsi con il suo repertorio di ballate folk rivisitate, blues e suoi pezzi orginali. E’ sempre qui che incontra gente come e Fred Neil con cui suona al “Wha?” oppure Dave Van Ronk o Ramblin Jack Elliot con cui si esibisce al Mills Tower, al Village Gate o al Gasslight. Il padrone di quest’ultimo locale disse che “Dylan non era una persona molto amichevole e non che penso che lui e Fred [Neil] andassero davvero d’accordo. Credo ci fosse un po’ di rivalità, erano due maestri e penso anche che si percepissero a vicenda come rivali”. Poi Bob incontra Dino Valente e suona con lui al Gaslight e con lui andrà anche una volta a visitare il suo maestro Woody, che morirà nel 1967.
Da quel momento in poi, il menestrello di Duluth iniziò la sua carriera discografica vera e propria con il primo disco “Bob Dylan” del 1962, che conteneva un paio di canzoni originali tra cui Song To Woody, dedicata a Guthrie, per il resto si trattava di cover riadattamenti. In quello stesso anno, l’incontro con la sua futura prima moglie, Sara Lownds, che darà alla luce Jacob Dylan. Comunque i successivi “The Freewheelin’ Bob Dylan” (1963) e anche “ The Times They Are a-Changin’” (1964), invece, sono dischi che contengono alcuni dei suoi più grandi capolavori, come Blowin’ in the Wind, The Times They Are a-Changin’ e Girl From the North Country. Due anni più tardi arrivano Bringing it All Back Home e Highway 61 Revisited con le famosissime e stupende Subterranean Homesick Blues, Maggie’s Farm, Mr. Tambourine Man, Like a Rolling Stone, Tombstone Blues, Desolation Row e Highway 61 Revisited. A quel punto anche i morti conoscono Dylan e le sue pirotecniche invenzioni linguistiche. Solo un anno più tardi è la volta di Blonde On Blonde che contiene anche la fantastica ballata I Want You.
Segue poi un periodo di cambiamenti, Dylan non si riconosce più come un rivoluzionario, non vuole più essere il portavoce dei sessantottini e cambia il suo stile, oltre alla sua chitarra. Il passaggio all’elettrica gli costerà moltissime critiche, ma è stato un passaggio simbolico: faccio quello che mi pare. Seguirà il famoso incidente motociclistico avvenuto vicino Bearsville, guarda caso dalle parti di Woodstock, quando Robert, per sua stessa ammissione, perde il controllo della Triumph T-100. Si tratta di un incidente grave e, una volta ripresosi, Dylan non sarà più lo stesso.
Alla fine degli anni settanta, poi, l’ebreo di origini lituane nato a Duluth, “rinasce” come cristiano e "accetta Gesù nella sua casa", a detta del pastore Kenn Gulliksen. Tra il ’79 e l’80, infatti, escono due album di ispirazione cristiana: Slow Train Coming e Saved. Sono in molti a criticarlo per questo:
Jann Wenner, direttore della rivista Rolling Stones, scrive che l’album Slow Train Coming: “È puro, vero Dylan, probabilmente il più puro e il più vero Dylan di sempre. Il simbolismo religioso è una logica progressione della visione manichea della vita e della sua dolorosa lotta con bene e male… sino alla politica, all’economia e alla guerra che hanno fallito il tentativo di farci sentire meglio – come individui o come nazione – e noi guardiamo indietro a lunghi anni di rovina, quando forse il tempo per la religione è ritornato, e piuttosto improvvisamente, "come un ladro nella notte”.
Secondo Stephen Golden del New York Times, invece: “Mr. Dylan mostra che né la sua età (ha quarant’anni) né la sua tanto pubblicizzata conversione alla rinascita cristiana ha alterato il suo temperamento essenzialmente iconoclasta”. Ma lui delle critiche se ne è sempre fregato.
Insomma, Dylan è caduto esausto, ha rubato tanti dischi, è stato sotterrato nella grandine, avvelenato tra i cespugli ed è stato fatto saltare in aria sulle rotaie, si è schiantato con la moto, è rinato cristiano, ha preso in giro chiunque e si è fatto prendere per il naso, una donna (Cate Blanchett in I’m Not There) lo imita meglio di tutti gli altri e Donald Duck è la sua musa vocale. È tutto e il contrario di tutto, piace a tutti e nessuno lo conosce bene.
Il suo nuovo album “Together Through Life” sembra, infatti, una presa in giro: in un’epoca di computer lui lo registra con i suoi vecchi amici e quattro fisarmoniche, oltre alle solite chitarre acustiche e le sputacchiere. Sembra un album vivo, mentre invece il suo autore invecchia. Eppure suona bene; quando lo senti pensi che anche tu avresti potuto scrivere canzoni così facili: niente di più sbagliato, anche perché quelle canzoni si sono scritte da sole, erano già nella sua testa e nelle sue mani cinquant’anni fa.