Bosnia: è ancora lunga la strada verso la vera stabilizzazione
10 Luglio 2009
Quasi quattordici anni fa, nel piccolo centro statunitense di Dayton, Franjo Tudjman, Slobodan Milošević e Alija Izetbegović firmavano l’Accordo di Pace che avrebbe congelato la guerra civile in ex Jugoslavia, uno dei conflitti più sanguinosi del nostro tempo. L’Accordo tra gli ex-nemici bloccava la violentissima guerra fratricida che si era combattuta soprattutto in Bosnia Erzegovina, tuttavia non ne risolveva le cause. All’indomani del cessate il fuoco erano ancora in armi 400.000 uomini, suddivisi nei tre eserciti che si erano battuti durante la guerra. Soprattutto, l’amministrazione del Paese era di fatto frazionata secondo la geografia etnica del territorio in tre macro-regioni (croata, bosgnacca e serba) che a loro volta incorporavano micro-comunità autonome a componente etnica distinta. Non vi era traccia di una identità nazionale bosniaca: non una moneta comune, non la bandiera e l’inno nazionale.
A Dayton si tentò di ricomporre uno Stato multietnico che negli ultimo quattordici anni è riuscito a rimanere a galla grazie ai considerevoli aiuti dall’estero e soprattutto alla volontà degli attori internazionali (e soprattutto dell’Unione Europea) di affrancarsi dalla pessima prova fornita dalla propria diplomazia durante gli anni di guerra. L’obiettivo principale dell’Accordo di Dayton (anche General Framework Agreement for Peace) e dei suoi undici Annessi – in cui sono stabilite le priorità politiche per la stabilizzazione dell’area – era proprio quello della tutela dell’esistenza della Bosnia-Erzegovina in condizioni di libertà e di libero mercato, da ottenere agendo lungo tre importanti direttrici: la ristrutturazione delle istituzioni e delle strutture economiche, la creazione di una struttura governativa realmente democratica e la garanzia a tutti i cittadini di vivere e lavorare liberamente ovunque. Per la sua portata istituzionale e finanziaria e per il numero d’attori coinvolti, l’intervento internazionale ha rappresentato il primo progetto di institutional buinding di uno Stato dopo la Guerra Fredda facendo da precedente per un nuovo modello d’intervento poi dalle Nazioni Unite con le successive esperienze di Timor Est e del Kosovo.
Il primo luglio 2008 si è compiuto un passo molto importante nel processo di implementazione degli Accordi di Dayton: è infatti entrato in vigore l’Accordo di Associazione e Stabilizzazione (Association and Stabilisation Agreement, ASA), siglato il 16 giugno in Lussemburgo tra i Rappresentanti di Unione Europea e Bosnia Erzegovina. In esso si prospetta un’implementazione definitiva degli Accordi di Dayton anche in conformità alle disposizioni e alle desiderata dei membri dell’Unione espressi durante i vertici di Zagabria (2000) e Salonicco (2003). L’Accordo di Stabilizzazione mira infatti a coadiuvare le istituzioni bosniache nell’implementazione del rule of law e nel rafforzamento dell’institutional building per permettere la transizione del Paese verso un’economia di mercato stabilizzata. In più, l’ASA è stato concepito per smantellare gradualmente l’impalcatura istituzionale concepita a Dayton, snellendola e modernizzandola poiché ancora oggi i cittadini bosniaci sono costretti a interfacciarsi con ben 14 livelli governativi e quindi con una burocrazia molto costosa e poco efficiente.
Sicuramente questo patto tra Bosnia e Unione Europea ha avuto il pregio di determinare l’inizio di un rapporto più approfondito tra Bruxelles e Sarajevo, ma in un anno la vaghezza istituzionale nella quale la Bosnia-Erzegovina si è barcamenata fin dal 1995 continua a caratterizzare la politica interna ed estera del piccolo Paese balcanico. L’entusiasmo col quale l’ASA è stato accolto un anno fa sembrava dimostrare la volontà di intraprendere finalmente la giusta strada verso una stabilizzazione definitiva, ma le battute d’arresto e gli ostacoli verso una credibile stabilizzazione bosniaca sono ancora molteplici. Soprattutto la classe politica manifesta ancora una strisciante ma sempre più manifesta resistenza alle necessarie riforme in senso unitario.
In particolare, Milorad Dodik, Primo Ministro della Republika Srpska (RS), se all’esterno si dimostra ben disposto alle trattative e alla collaborazione con la Comunità Internazionale e le Istituzioni centrali di Sarajevo, all’interno della RS rende da sempre pubblica (sia a parole che coi fatti) la sua radicata convinzione che la Bosnia Erzegovina sia stata costruita a Dayton come un irrazionale agglomerato di etnie astiose e ostili tra loro che molto meglio starebbero se separate. Ciò ha condotto la Comunità Internazionale a ripensare alla propria exit strategy dalla Bosnia. L’Ufficio dell’Alto Rappresentante delle Nazioni Unite (OHR) non è stato chiuso nel 2006, ma ancora l’Alto Rappresentante continua a mantenere la propria carica di garante della conduzione democratica degli affari politici bosniaci e a sedare le spinte indipendentiste di alcune frange ultranazionaliste che ancora fomentano l’incomprensione interetnica. In effetti, sono ancora numerose le questioni da affrontare prima che il processo di implementazione degli Accordi di Dayton possa dirsi concluso e che quindi l’Ufficio dell’Alto Rappresentante possa definitivamente chiudere.
Persino l’arresto dell’ex Presidente della Repubblica Srpska e criminale di guerra Radovan Karadžić non ha dato al Paese quell’impulso di liberazione e fiducia nel futuro che la Comunità Internazionale si sarebbe aspettata. E come tutti gli anni, l’anniversario del massacro di Srebrenica (11 luglio 1995) torna a riaprire ferite ancora troppo fresche per essere ricucite credibilmente e stabilmente.
In effetti, la fiducia che Bruxelles continua ad ostentare nei riguardi di una effettiva implementazione degli accordi di Dayton e di una stabilizzazione definitiva dell’aerea balcanica non sembra essere condivisa a Sarajevo, ove si guarda con timore ad una possibile uscita dal Paese degli attori internazionali che fino ad oggi hanno contribuito con la loro presenza massiccia a non riattizzare il caos istituzionale e politico del decennio scorso. Il termine della presenza internazionale in Bosnia Erzegovina potrebbe infatti portare ad un declino inesorabile un Paese di cui tutti manifestano un’equilibrata esistenza, ma che in pratica sopravvive ancora frammentato e lacerato dai fantasmi di un conflitto insensato di cui ancora ostenta delle tracce troppo visibili e mal lenite.