Bossi cerca la quadra ma col niet a Maroni accelera la resa dei conti
16 Gennaio 2012
Calma apparente. La “fatwa” contro Maroni è durata ventiquattrore, quanto basta però per accelerare ciò che Bossi ha prima avallato, poi ha dovuto rimangiarsi davanti alla base in rivolta: la resa dei conti nella Lega. Sabato in via Bellerio lo stato maggiore ha deciso che l’ex ministro dell’Interno non poteva più partecipare a comizi e iniziative politiche. Sentenza di condanna per il ribelle movimentista. La linea sul sì all’arresto di Cosentino che Maroni era riuscito a far passare in Giunta e il Senatur a ridimensionare in Aula lasciando ai deputati libertà di coscienza, è solo l’ultimo atto di un braccio di ferro che viene da lontano e nel quale si incastrano ambizioni personali, visioni familistiche della gestione del partito, lotte di potere tra fazioni (come quella per la presidenza del gruppo a Montecitorio). Sullo sfondo, ma nemmeno poi tanto, la successione al ‘capo’.
In tutto questo, c’è una novità destinata a segnare una svolta, ad aprire una breccia nel muro tirato su attorno alle beghe interne, quella corazza costruita su misura per difendere l’immagine di un partito granitico, compatto attorno al leader e che per lungo tempo è stato uno dei punti di forza della Lega. Vietato lavare i panni sporchi in piazza. Le regole sono sempre state molto rigide e degli equilibri interni al movimento padano fino a poco tempo fa si sapeva pochissimo ed era difficile entrarvi. Ma la ‘consegna’ del silenzio coi media messa a verbale sabato dai big del partito (e commentata da Maroni su Fb con “mi fa vomitare”), è andata in pezzi di fronte al rumore – assordante – che ha spalancato le finestre di via Bellerio. La base si è ribellata. E per la prima volta ha infranto quel muro usando la prateria del web. Dai blog alle pagine Facebook in poche ore il popolo padano ha scelto: pollice verso su Bossi e il cerchio magico, solidarietà a Maroni. Segnale forte per il Senatur, tanto forte da non poter essere sottovalutato, né minimizzato come spesso si è cercato di fare dalle colonne de La Padania o dalle frequenze di Radio Padana.
Stavolta no, il popolo leghista non ha compreso, non ha gradito, si è mosso, si è indignato. E a nulla in queste 48 ore di fuoco sono valse le dichiarazioni delle rispettive fazioni – cerchisti contro maroniani, con tanto di accuse e controreplice – per tenere la situazione sotto controllo. Anzi, il tutto il contrario. E’ stato per questo che Bossi ha dovuto correggere il tiro, provare a metterci l’ennesima pezza, ma stavolta con la consapevolezza che lo scollamento dalla base segnala una perdita di smalto nella sua leadership, un qualcosa che si è incrinato e va ricucito, recuperato, un feeling che va riconnesso. Un errore grossolano, un vero azzardo quel niet a Maroni che se finora era sembrato restare in mezzo al guado nella competizione coi cerchisti, adesso si è ritrovato tra le mani un assist servito su un piatto d’argento. E il tentativo di neutralizzarlo, zittirlo, paradossalmente, si è rivelato un boomerang.
Ecco la frase secca del capo affidata ieri alla Padania “Maroni deve essere più cauto”; ecco la dichiarazione per ricondurre lo strappo nel recinto della dialettica politica: con Bobo farà un comizio, nessuna rottura. Bobo fa altrettanto, prudentemente in questa fase. Anche se potrebbe cavalcare l’onda lunga delle centinaia di persone che su Facebook lo incoraggiano ad andare avanti e criticano le regole del cerchio-magico nel quale – a legge i commenti dei militanti – il leader è ormai imprigionato. No, Maroni non forza, sa che non è tempo di andare allo scontro frontale. Sceglie il low profile anche se rivendica il dissenso rispetto a certe decisioni dell’establishment leghista, puntando le sue fiches su un altro dossier, strategico: la partita dei congressi.
Lo fa capire nella prima uscita pubblica (e mediatica) dopo la tempesta: ospite da Fazio (Che tempo che fa) non soffia sul fuoco delle polemiche, usa toni pacati e riflessivi, ma mette in fila tre concetti che danno chiaro il segno della strategia, d’ora in avanti: condivide l’appello della base per l’apertura della stagione congressuale, afferma (precisando di parlare a titolo personale) che l’alleanza con il Pdl nell’era Monti è finita e che per coerenza la Lega deve correre da sola alle prossime amministrative; boccia la questione degli investimenti in Tanzania chiedendo chiarimenti ai vertici. Tre passaggi ‘alternativi’ alla linea dei bossiani (la maggioranza), sui quali articola la battaglia che verrà, forte del fatto che ora la base si è fatta sentire e ha mostrato di stare dalla sua parte.
Basta scorrere le centinaia di commenti nelle pagine della community facebookiana per avere chiaro il quadro: “Bravo Bobo, ribellati ai diktat di Bossi”, “Congresso subito”; “Ottima intervista, ottimi concetti e ottima la pacatezza. Mi piacerebbe che questa fosse la linea politica e dei dei modi di gfare che tutta la Lega potesse tenere da qua al futuro”. E ancora: “Seguo la Lega da oltre vent’anni. So che politica significa compromesso, ma non immaginavo un tale livello di non-democrazia nella Lega…”. Nomi e cognomi, commenti, riflessioni, tutti dello stesso tenore.
Da Fazio, Maroni pesa ogni parola. Non approfitta della ribalta per sparare contro gli avversari che volevano scomunicarlo, contro quei “qualcuno ai piani alti del partito ai quali non sto simpatico”. Non nasconde l’amarezza per il veto deciso e poi ritirato, ma non la usa strumentalmente. Anzi, dice che per lui “la cosa è chiusa qui”, che con Bossi non c’è alcuna rottura. Tuttavia non rinuncia a dire come la pensa. E come la pensa non è come la pensano i cerchisti.
Punto primo: “Condivido la richiesta di fare il congresso arrivato con forza dalla base e dai militanti che mi esprimevano affetto. Il congresso è una via importante e giusta perchè è la via della democrazia interna”. Punto secondo: “La mia opinione personale è che, se il Pdl continuerà a sostenere a Roma il Governo Monti, la Lega dovrà andare da sola alle elezioni amministrative. Io però sono un semplice deputato, decideranno gli organi del partito”. Punto terzo: gli investimenti in Tanzania. Osserva: “Non conosco i motivi, abbiamo chiesto spiegazioni perchè le risorse non sono utilizzate per le sezioni per far politica. Sarebbe una cosa ovvia”.
E con Bossi? “Non c’è alcuno scontro da parte mia. Ieri è stata scritta una pagina importante perchè si è levata la voce della base, che si è fatta sentire in maniera molto forte”. Poi parla della telefonata col capo: “Bossi mi ha detto che non sapeva” del niet agli incontri coi militanti” spiega Maroni che non si attarda in retroscena (“non mi interessa”) e preferisce soffermarsi su quella “la base che ha reagito con affetto; in sei ore ho ricevuto 200 inviti a partecipare ai comizi e li onorerò tutti”. Messaggio ai censori-cerchisti. E alla domanda se sia finita la querelle dentro la Lega, risponde con un auspicio: “Spero di sì. Non è la prima volta che succede. Queste cose mi hanno ferito”.
Ancora: non cade nella provocazione sulla guerra per la successione e sull’ipotesi che il passaggio del testimone – quando e se sarà – possa avvenire per via dinastica (cioè al Trota, il figlio del capo) ed è abile a glissare sottolineando che non esiste la questione e che adesso ciò che conta è lavorare per consolidare il consenso attorno alla nuova rotta del partito: l’opposizione al governo Monti. Al di là dei tatticismi e delle diplomazie, la questione c’è eccome. Sabato Maroni sarà a Milano per la manifestazione di partito contro l’esecutivo dei professori. Sarà forse quella l’occasione (pubblica) per salire sul palco insieme a Bossi.
Il comizio della concordia ritrovata (o presunta) sa molto di foto-opportunity: in realtà, l’impressione è che si tratti di una tregua armata. In attesa dei congressi. L’ex ministro dell’Interno conferma: “La Lega è la mia casa, il mio partito da sempre e spero per sempre”. Frase tattica e al tempo stesso sibillina: in quell’auspicio, in quello “spero per sempre” si può leggere tutta l’incertezza di ciò che sarà o potrebbe essere, compreso l’idea – accarezzata da molti maroniani in queste ore – di fondare un nuovo partito. Che magari racchiuso in un ‘cerchio’ abbia solo il simbolo.