Bossi continua a tirare calci a Berlusconi e il Pdl sta a guardare

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Bossi continua a tirare calci a Berlusconi e il Pdl sta a guardare

09 Maggio 2011

Umberto Bossi, il fedele alleato, è talmente "fedele" che quando può tira dei calci negli stinchi a Silvio Berlusconi tali da procurargli estesi ematomi che con difficoltà si riassorbono, quando si riassorbono. In verità, gli ultimi potrebbero lasciare segni più duraturi di quanto si immagini e non è detto che i dolori poi passino. Il capo del governo ne è naturalmente consapevole, ma che cosa può fare nella situazione surreale nella quale è immerso, come tutta la politica italiana del resto? Prima si è dovuto sorbire la più ridicola, sgangherata e provocatoria mozione parlamentare sulla guerra libica voluta, pretesa, imposta dalla Lega.

Poi ha fatto buon viso a cattivo gioco quando Bossi ed il suo stato maggiore si sono docilmente piegati alla bizzarra tesi del presidente della Repubblica secondo il quale la nomina di nove sottosegretari, di stretta competenza del premier, imporrebbe un passaggio parlamentare, come se i due terzi degli stessi non fossero stati eletti nelle liste del partito di maggioranza relativa e gli altri, pur rappresentando, come parlamentari, la nazione senza vincolo di mandato, non avessero la facoltà di abbandonare i partiti di provenienza per riconoscersi nella maggioranza di governo. Infine, di fronte all’intemerata berlusconiana contro i pm militanti (e non contro tutta la magistratura, come qualcuno ha finto di capire), il leader leghista ancora una volta si è schierato dalla parte di Napolitano che, praticamente, con il suo retorico richiamo alla legalità ( manco se qualcuno si battesse per l’illegalità…) ha assestato una bacchettata al presidente del Consiglio della quale hanno gioito tutti gli avversari del centrodestra ad una settimana dalle elezioni amministrative.

Bossi non fa e non dice nulla per caso. Persegue un fine ben preciso. Non è difficile intuire che ha lanciato da qualche tempo l’operazione di sganciamento dal governo di Berlusconi e dal Pdl. Il copione è tutt’altro che nuovo. A lui della coalizione non gliene importa nulla. Il progetto del centrodestra non è affar suo se non nella parte che concerne il federalismo disposto a realizzarlo anche con il diavolo se necessario. Avergli riconosciuto la golden share sul governo è stato l’errore più grande che Berlusconi abbia fatto e con lui una classe dirigente tanto miope da non avvedersi del pericolo che con tale generosa elargizione correva. Ma ancora più grave è risultato rincorrerlo sul suo stesso terreno, inseguirne pregiudizi ideologici e politiche localistiche, rinchiudersi nel suo recinto socio-culturale e scoprire quindi di non poter prescindere dal suo elettorato, dalle sue truppe militanti, dagli umori del quel popolo del Nord che avrebbe gradito magari una politica coerente con le aspirazioni di sviluppo piuttosto che un freddo ed indeterminato (peraltro confuso) federalismo i cui costi ancora non sono stati seriamente quantificati e neppure l’impatto economico, finanziario e perfino culturale è chiaro.

Bossi, insomma, convinto che con lui Berlusconi non possa rompere, attizza il sospetto, attraverso le sue improvvide esternazioni, di lavorare ad un altro progetto se dovesse precipitare la situazione, magari a fronte di un non brillante risultato alle amministrative. Il ché non significa che si impegni per la fine traumatica della legislatura, ma più realisticamente che si tenga le mani libere nell’eventuale crisi di governo, magari lanciando la "stella" di Tremonti cui non a caso il premier ha tributato inusitati, sperticati elogi nei giorni scorsi.

Insomma, una qualche ragione più che plausibile Bossi l’avrà pure se non esita ad assumere posizioni così stridenti con quelle di Berlusconi. Non si vuol dire con questo che è pronto all’intelligenza con il nemico, naturalmente. Tuttavia neppure è da sottovalutare il cambio di atteggiamento fragorosamente mostrato negli ultimi dieci giorni.

Su tutto ciò nel Pdl, con preoccupante ritardo, si sta riflettendo. Ma l’esito sconsolato di una meditazione a dire il vero piuttosto superficiale (se non si riuniscono gli organi di partito in occasioni del genere, quando è il momento?) è facilmente immaginabile: senza Bossi non si va da nessuna parte. 

Questo è il cul de sac nel quale il Pdl si è cacciato. E allora per far durare il governo, la legislatura e lo stesso Berlusconi, alla Lega tutto si deve permettere a meno di non far saltare il tavolo con le conseguenze facilmente intuibili. Uno scenario apocalittico? Certamente. Ma colpevolmente autorizzato da chi invece di costruire una politica di compatibilità con altre forze della coalizione, ha fatto proprio necessariamente il punto di vista degli alleati minori.

Paradossale se si tiene conto che la sinistra più sgangherata e stupida d’Europa, autolesionista come mai nessuna forza politica in Italia, non è assolutamente in grado di proporre un’alternativa di governo che non passi per la via giudiziaria, facendosi pure bacchettare dal capo dello Stato quando è il caso (a proposito: perché tanto a sinistra quanto a destra non si apre un bel dibattito giuridico, culturale e politico sui poteri del presidente della Repubblica per come si sono modificati nella prassi e, dunque, sul presidenzialismo strisciante?). Paradossale e deprimente.

Che fare? Non ci si venga a dire che adesso bisogna attendere l’esito elettorale e poi si vedrà. È inaccettabile che un partito politico, ancorché nato tra molte contraddizioni e fin dai primi vagiti dalla vita difficile, stia a guardare la possibile decomposizione della coalizione che guida senza fare nulla, anzi facendo finta di niente. A Bossi, tanto per dire, si replica andando a vedere le sue carte. Sulla vicenda libica forse si sarebbe scoperto il bluff. D’accordo, Berlusconi ed il Pdl perderebbero molto se tutto naufragasse, ma la Lega tornerebbe con le mani vuote nelle sue valli se la legislatura finisse anzitempo ed un governo di ribaltonisti non fosse possibile. Osare talvolta non è sinonimo di perire. Glielo si ricordi nei fatti a chi ritiene di giocare all’alleato fedele soltanto quando non c’è niente da perdere.