Bossi e Maroni cercano l’unità ma è solo un’operazione di facciata
26 Luglio 2011
La Lega si slega? Tuona il Senatur: “C’è una sola Lega, nessuno faccia confusione, sennò mi inca…”. Dilemmi e paradossi padani. Al di là delle dichiarazioni ufficiali, l’unità del Carroccio sbandierata ogni due per tre, riaffermata ogni qualvolta le frizioni interne si fanno più evidenti, appare più un’operazione di facciata che lo stato reale delle cose.
Il partito un tempo granitico, che parlava con una voce sola, che marciava compatto nella stessa direzione e nel solco tracciato dal leader, oggi mostra tutti i segni di una metamorfosi che si proietta nell’era post-Bossi. Con tutti i se e i ma che una fase così turbolenta si porta appresso e riverbera sul rapporto col Pdl, mai stato teso come in queste ultime settimane. Dalla manovra al caso Papa, dal feeling con Tremonti al decreto legge sui rifiuti, al ddl costituzionale, passando per le missioni militari all’estero, la poltrona del Guardasigilli e le manovre di Palazzo in chiave anti-Cav. sono i punti di maggiore frizione. Anche tra le camicie verdi.
E’ Roberto Maroni l’uomo nel ‘mirino’ della Lega più bossiana di Bossi, quella del ‘cerchio magico’e dei reguzzoniani ‘battuti’ alla Camera sul voto all’arresto di Papa. Con quel voto, il ministro dell’Interno ha spezzato il ‘cerchio’ intorno al Senatur e affermato il suo ‘peso’ dentro il gruppo parlamentare (avendo dalla sua una quarantina di deputati). E’ stato il più critico nei confronti del Cav., e in questo è apparso come colui che in qualche modo sta già lavorando al dopo Bossi-Berlusconi, preparando il terreno alla sua scalata al partito e, forse, alla corsa verso Palazzo Chigi. Il segnale, in quel mercoledì drammatico a Montecitorio, si è avuto chiaro quando il ministro dell’Interno (assente Bossi) ha snobbato i banchi del governo per sedersi tra quelli dei leghisti. In politica, contano anche i gesti.
Del resto, se si rilegge oggi lo striscione “Maroni presidente del Consiglio” srotolato un mese fa sul sacro prato di Pontida proprio in faccia al Senatur, si comprende meglio come quella scritta in qualche modo segnalasse non solo e non tanto l’auspicio dei fedelissimi del capo del Viminale, quanto piuttosto il segnale di un’accelerazione nella guerra di posizionamento tra ‘colonnelli padani’. In quest’ottica, al movimentismo maroniano fa da contraltare quello calderoliano. Nei ranghi pidiellini viene letta anche così la ‘forzatura’ di Calderoli sul ddl costituzionale che venerdì ha alzato il livello della temperatura nella coalizione: da un lato il ministro leghista a dire e ribadire sulle agenzie che il testo è stato approvato in via definitiva dal Consiglio dei ministri e non c’è bisogno di alcun passaggio successivo, dall’altro il premier che annuncia il lavoro di una commissione di esperti e la chiusura del testo il 4 settembre. In mezzo, le irritazioni dei vertici di via dell’Umiltà, solerti nel ricordare che il patto con la Lega prevede altro: e cioè che il testo è e resta ‘aperto’, che il Cdm ha varato la bozza Calderoli con la formula ‘salvo intese’ e l’intesa tra Pdl e Lega dice che c’è da mettere a punto, da chiarire e approfondire alcuni passaggi (Senato federale ma non solo) per i quali serve lavorare ancora, da qui a un mese. E tuttavia, la mossa del ministro della Semplificazione – così come quella dell’apertura di sedi ministeriali a Monza – è parsa la risposta all’attivismo di Maroni.
Nel Carroccio, gli uomini vicini al ministro della Semplificazione non fanno mistero, seppure a mezza bocca, di un certo tasso di irritazione per la linea maroniana, anche se poi nessuno osa mettere in discussione la leadership di Bossi, tantomeno ammettere la contrapposizione tra correnti, e quando cerchi di capirne di più ti rispondono con la frase di rito: “Normale dialettica politica”. Sarà, ma la cronaca degli ultimi giorni segnala qualcosa di più e di diverso. Ciò che appare è un partito attraversato da fibrillazioni ormai difficili da gestire, e ogni volta che si supera il limite Bossi è costretto a richiamare tutti all’ordine.
Ed è nel gruppo parlamentare alla Camera che si toccano con mano preoccupazioni e perplessità. Sono quelle dei deputati vicini al capogruppo Marco Reguzzoni, a sua volta vicinissimo al Senatur che per lui ha battuto il pugno sul tavolo quando i maroniani ne avevano messo in discussione il ruolo e volevano andare alla conta per sostituirlo con Giacomo Stucchi. In molti ritengono che l’operazione, alla fine scongiurata da Bossi, sia solo rinviata e non archiviata definitivamente. La ‘prova di forza’ sulla testa di Alfonso Papa, fa pensare che sia così e che la ‘pratica’ in autunno sarà riaperta. “Noi siamo stati coerenti con la linea di Bossi, anche se alcuni di noi avevano dubbi. Per questo il partito ha lasciato libertà di coscienza”, prova a spiegare un parlamentare reguzzoniano che poi, però, non nasconde l’amarezza per come sono andate le cose e ammette che in questo momento nel partito ci sono posizioni diverse che si confrontano e talvolta si contrappongono. Con un unico imperativo, però, che vale per tutti: dare risposte concrete a una base che ha mostrato segni di insofferenza “come accaduto alle amministrative e che dobbiamo rimotivare”.
Sì, ma non è che per questioni interne a un partito si può pregiudicare la stabilità della coalizione? Non è così, si giustifica il deputato leghista, “noi abbiamo le nostre posizioni ma non è in discussione la lealtà a Berlusconi e a questo governo”. Le stesse parole con le quali Bossi ha rassicurato il Cav. nella telefonata di ieri, dopo le polemiche dei giorni scorsi e l’idea lanciata da Fini di un Maroni candidato premier al suo posto che ha destato non pochi sospetti dalle parti di via dell’Umiltà. Dal canto suo, il ministro dell’Interno non vuole essere tirato per la giacchetta: il momento è troppo delicato per farsi ‘corteggiare’ perfino da Fini e dal terzo polo dopochè la sua presenza alla festa del Pd (Il Riformista qualche giorno fa titolava: “Maroni superstar alla festa del Pd”) ha fatto storcere il naso nel Pdl e pure ai leghisti più filo-berlusconiani. Così, fa filtrare un ‘no, grazie’ sottolineando che lui sta lavorando affinchè questo governo arrivi al traguardo naturale.
Certo è che la settimana che si apre dirà di più sulla frase-cult in voga tra i parlamentari pidiellini: “A che gioco gioca la Lega?”. Si comincia domani al Senato con il voto sul rifinanziamento delle missioni militari all’estero, questione sulla quale il viceministro Castelli ha già dichiarato che voterà no anche se questo dovesse costargli la poltrona a Palazzo Chigi (“se Berlusconi lo riterrà sono pronto ad andarmene”). Ieri un Calderoli dialogante (col Pdl) in qualche modo ha corretto il collega sostenendo che seppure col maldipancia, il partito voterà sì, ma l’incognita resta perché a Pontida il no di Bossi è parso definitivo. E se Maroni rassicura che il voto su Papa “non ha avuto alcuna ripercussione sul governo” e che nella Lega “c’è un gruppo compatto e la guida salda di Umberto Bossi”, è toccato ancora una volta al Senatur mettere una pezza sopra, coi suoi e col Cav. Bossi conferma che il governo va avanti fino al 2013, rilancia l’asse con Tremonti (dopo la ‘crisi’ legata alla manovra) e ai suoi dice: “C’è una sola Lega, nessuno faccia confusione, sennò mi incaz….”. Di Maroni, poi, dice che è “un bravo ragazzo”. E i bravi ragazzi, si sa, non fanno “stupidaggini”. E’ ancora lui a decidere e sa bene che senza il Cav., il ‘Sole delle Alpi’ potrebbe rischiare il tramonto.