Bossi, Fini e il Cav. si “intercettano” a vicenda ma l’accordo ancora non c’è

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Bossi, Fini e il Cav. si “intercettano” a vicenda ma l’accordo ancora non c’è

17 Giugno 2010

C’è chi la chiama “guerra di posizionamento” e chi preferisce optare per un più sobrio “lavorìo tattico”. In attesa che l’accordo tra Fini e Berlusconi vada in porto. Certo, a guardarla dall’esterno la situazione appare alquanto confusa , perché se mercoledì dal vertice Pdl con Berlusconi è uscita la linea possibilista su tempistica e contenuti del ddl intercettazioni su cui si reggono pure base ed esito dell’accordo Fini-Berlusconi, ieri all’esordio del testo in commissione Giustizia il clima non era certo dei più concilianti.

Con la finiana Giulia Bongiorno, presidente della commissione e relatrice del ddl, che dietro l’auspicio del ruolo istituzionale, fa intendere che occorre rimettere le mani almeno su tre punti della legge e il capogruppo del Pdl Enrico Costa risponde ‘picche’ definendo quelle della Bongiorno posizioni “a titolo personale”. C’è poi da capire il faccia a faccia Bossi-Fini, col Senatur che conferma il sì della Lega ad eventuali correttivi, al punto che il suo uomo in commissione – Luca Paolini – si è spinto a ipotizzare, nel caso serva, anche un giro di audizioni. 

Su tutto resta l’insoddisfazione del Cav. che ha dovuto digerire l’elenco delle ragioni che i suoi gli hanno messo sul tavolo e in base alle quali è meglio trattare col presidente della Camera: dalla necessità di non alimentare ulteriori scontri interni durante l’iter parlamentare alla Camera, agli scenari che un eventuale ricorso alla fiducia potrebbe aprire, compreso quello del voto finale a scrutinio segreto giudicato dai mediatori “altamente a rischio”, per non parlare poi degli effetti che un muro contro muro potrebbero provocare all’immagine del governo e della maggioranza, specialmente su un provvedimento fortemente contestato, e non solo dall’opposizione.

Alla fine, il premier ha scelto una via di mezzo pur non rinunciando a sottolineare l’importanza di regolamentare l’uso delle intercettazioni, mettendo al primo posto il diritto alla riservatezza dei cittadini, sancito dalla Costituzione (articolo 15). L’obiettivo, dunque, è disinnescare la miccia delle polemiche dentro e fuori la maggioranza.

E’ per questo che molti esponenti pidiellini considerano il botta e risposta tra la Bongiorno e Costa una tattica per marcare le rispettive posizioni. Il punto vero è che dietro le quinte si sta trattando e in questo contesto, poco importa se il voto di Montecitorio sul ddl arriverà entro la prima settimana di agosto oppure a settembre.

Anche se, soprattutto i colonnelli di An mal digeriscono la prospettiva di un probabile rinvio perché sarebbe come fare autogol dopo il lungo lavoro di mediazione fatto per due anni. E lo si capisce dalle parole di Altero Matteoli secondo il quale “ci sono le condizioni” per portare a casa il testo prima della pausa estiva e da quelle di Maurizio Gasparri che non ha gradito quella che dall’esterno potrebbe sembrare una sponda tra Bossi (il quale auspica una sintonia col Quirinale) e Fini.

Tanto è vero che alla frase del Senatur “se Napolitano non firma siamo fregati”, lui replica secco: “Non ho contatti con il Quirinale. Forse Bossi conosce delle cose che io ignoro. D’altronde, è ovvio che il Quirinale taccia nel corso del procedimento legislativo”. Poi, tatticamente, ricorda il lavoro a Palazzo Madama che “coniuga le esigenze delle attività investigative e la necessità di limitare gli abusi”. Insomma, un lavoro che ha raggiunto un punto di equilibrio, dopo due anni di esame sul testo, anche se riconosce che“la Camera, naturalmente, potrà fare le modifiche che riterrà opportune”.

In realtà, è la lettura ricorrente nel Pdl, l’iniziativa di Bossi è in chiave pro-Cav. e pro-governo. Nel senso che il leader del Carroccio ha voluto testare il polso della situazione per capire dal diretto interessato se vuole chiudere su un compromesso onorevole per il governo o accantonare definitivamente ogni tentativo di regolare più che l’uso delle intercettazioni, la loro pubblicazione senza limitazioni facendosi così paladino della stampa organizzata.

In altre parole, il Senatur che solo una settimana fa non ha risparmiato critiche al presidente della Camera dopo il via libera dell’ufficio di presidenza del Pdl, adesso è impegnato nel ruolo di “pompiere”. In cambio di cosa? Non è un mistero che la priorità leghista resta il federalismo fiscale (i decreti attuativi) ma con gli effetti della crisi economica internazionale sa bene che il governo dovrà procedere con cautela evitando di scaricare sulle Regione non solo parte delle risorse dello Stato (come il federalismo prevede), ma pure pezzi del debito pubblico.

Per questo – osservano alcuni deputati ex forzisti – il Senatur ha tutto l’interesse a gettare acqua su fuoco dello scontro interno al Pdl non solo per rasserenare il clima ma anche per evitare che il governo possa incartarsi su un provvedimento che non ha grande appeal nell’opinione pubblica.  “E con la manovra che fa tirare i cordoni della borsa – nota un esponente pidiellino – vagli a spiegare alla gente che la priorità assoluta sono le intercettazioni”. 

D’altra parte c’è chi sostiene che cedere su questo argomento dopo due anni di duscussioni e trattative finora prive di risultato significherebbe dare la prova definitia alla lobby giudiziaria che Berlusconi sulla giustizia è una "tigre di carta", secondo la storica espressione di Mao Tze Tung. E dunque, rinunciare a questo provvedimento vorrebbe dire mettere definitivamente nel cassetto ogni ipotesi di riforma.

La mossa della Bongiorno che incassa gli elogi di Di Pietro e l’apprezzamento dell’Udc,  in qualche modo era preventivabile, dal momento che i fedelissimi del presidente della Camera hanno fatto pressing serrato sul partito e sui mediatori incaricati di lavorare  all’accordo Fini-Berlusconi . Non solo, ma in mattinata il faccia a faccia tra l’inquilino di Montecitorio e il Senatur ha dato la stura al modo in cui impostare l’intervento in commissione Giustizia.  Nel ddl ci sono alcuni punti che andrebbero rivisti per poi essere eventualmente modificati, è il ragionamento della consigliera giuridica del presidente della Camera.

Quali? Sostanzialmente sono tre: quelli che riguardano la proroga della durata degli ascolti di tre giorni in tre giorni, l’intercettabilità dei cosiddetti “reati satelliti”, la responsabilità giuridica dell’editore che lascerebbe aperto il problema della possibilità per quest’ultimo di interferire con il lavoro e l’indipendenza del direttore, i quattro anni di condanna previsti come pena massima per il reato delle registrazioni fraudolente.

Su questo si dovrà trovare la quadra. Lunedì la conferenza dei capigruppo alla Camera non si occuperà della calendarizzazione delle intercettazioni e del dossier, quindi, se ne riparlerà nella riunione prevista ai primi di luglio. Ufficialmente perché il contingentamento dei tanti provvedimenti all’esame dell’Aula non lascia spazio di manovra nel calendario dei lavori, ma sul piano politico è il segnale che il provvedimento è ancora in alto mare e che non conviene affrontare l’Aula senza aver blindato l’accordo nell’unico luogo in cui esso è blindabile: la commissione giustizia della Camera.

La partita, dunque resta aperta. A meno di un cambio di passo che dal dettaglio delle intercettazioni sposti una forte iniziativa verso la riforma della giustizia, attesa da diciassette anni e che il ministro Alfano ha già tratteggiato.