Bossi punta i piedi sulla Libia ma non rompe col Cav. (per ora). Pd in pezzi

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Bossi punta i piedi sulla Libia ma non rompe col Cav. (per ora). Pd in pezzi

27 Aprile 2011

Bossi punta i piedi ma non è intenzionato a rompere. Per ora. L’aria che tira, però, è pesante.  All’apertura di Reguzzoni al Pdl segue l’affondo di Maroni e le cose nel giro di poche ore tornano al punto di partenza. Al ‘no non ci sto’ di Calderoli, al ‘non siamo una colonia francese’ del Senatur. Con in più il fatto che nella Lega c’è chi come il ministro dell’Interno, è favorevole a un nuovo passaggio parlamentare. Quello che sta accadendo nelle ultime 72 ore, rivela non solo le divisioni nella maggioranza ma anche dentro il Carroccio e ancor di più nel centrosinistra dove il Pd è spaccato e nel terzo polo dove Casini frena Fli, pronta all’assalto del Cav., come il 14 dicembre.  

Le parole di Calderoli (lunedì), il no di Bossi (martedì), l’affondo della Padania (mercoledì): il crescendo di toni, moniti, altolà leghisti, ieri pomeriggio pareva destinato a diluirsi nella disponibilità a una mediazione col Pdl. Ai ministri Frattini e La Russa che hanno riferito sulla decisione del governo davanti alle commissioni Esteri di Camera e Senato riunite in seduta congiunta, il capogruppo del Carroccio a Montecitorio Marco Reguzzoni (fedelissimo del Senatur) ha risposto usando toni diversi da quelli che qualche ora più tardi, Maroni ha scaricato su Berlusconi. Pur ribadendo la contrarietà del suo partito ai raid degli aerei italiani su obiettivi militari libici, Reguzzoni ha innanzitutto riconosciuto le parole di Napolitano e per questo dichiarato che “il parere delle Camere non serve”.

Non solo: ha ribadito che la linea “è chiara e coerente con quanto deciso dal parlamento”, rispedendo al mittente le accuse di una Lega che “abbaia ma non morde” (Finocchiaro) o che si è “calata le braghe” (Bersani) e le altrettante “speculazioni politiche” che sono arrivate dal fronte dell’opposizione, terzo polo compreso. “Si mettano l’anima in pace” quanti sperano che questa sia l’anticamera della crisi di governo – è il messaggio di Reguzzoni – , magari stabilendo un parallelo con quanto nel 1998 Bertinotti e Rifondazione fecero col governo Prodi sull’intervento in Kosovo. Paragone infelice perché allora le divisioni erano sostanzialmente basate su due visioni diverse dello scenario geopolitico internazionale, impossibili da coniugare o da mediare.

In questo caso, invece, i leghisti ripropongono né più ne meno quanto già manifestato quindici giorni fa col voto parlamentare sulla risoluzione Onu e nel Consiglio dei ministri. Anche due settimane fa la posizione era contraria al coinvolgimento dell’Italia nelle operazioni Nato in Libia autorizzate dall’Onu (astensione in Cdm e non partecipazione al voto nelle commissioni) ma alla fine si era arrivati alla convergenza su un documento unitario. Esattamente ciò che le diplomazie pidielline e leghiste hanno tentato di fare ieri partendo proprio dall’intervento di Reguzzoni che ha ribadito un concetto di fondo: “La Lega è nel governo e nella maggioranza, non contro il governo”. Affermazione netta che lascia spazio al tentativo di scrivere un testo unitario se e quando si dovesse tornare al voto dell’Aula, ipotesi che comunque anche ieri il Pdl dava per non possibile dal momento che l’evoluzione del quadro è in linea con quanto il parlamento ha già votato (risoluzione Onu 1973 e mandato alla Nato).

E siccome a pronunciare quelle parole non è stato un ‘peones’ ma il capogruppo alla Camera molti nel Pdl lo hanno letto come un segnale di disponibilità a trovare una ricomposizione. Il convincimento di fondo è che i toni forti usati dal Carroccio in questa fase abbiano molto a che fare con le amministrative, partita per la quale i leghisti hanno bisogno di lanciare messaggi chiari al corpaccione elettorale cercando di capitalizzare al massimo il consenso. Anche, anche se questo vuol dire provocare divaricazioni nella maggioranza e – come in realtà è stato –prestare il fianco alla strumentalizzazione dell’opposizione che eccetto Di Pietro il quale veste i panni del pasdaran pacifista (pure lui è concentrato sul voto amministrativo nella competizione col Pd) e l’atteggiamento prudente di Casini sull’ipotesi di un nuovo voto in Parlamento, è partita lancia in resta per rivendicare il passaggio parlamentare.

Ma qui la contraddizione è grande come una casa e svela, ancora una volta, la vera strategia di Bersani&C.: se quindici giorni fa i democrat erano favorevoli alla missione Nato in Libia e semmai accusavano il Cav. di tergiversare, oggi che il governo ha assunto un profilo più interventista e Napolitano ha detto chiaramente che si tratta di una “naturale evoluzione” della risoluzione Onu sostenendo in buona sostanza che i raid aerei per rovesciare Gheddafi sono necessari e dunque approvando la posizione del governo, usano il ‘niet’ della Lega nella speranza di riuscire a dare la spallata al Cav. dopo i numerosi tentativi andati a vuoto. Il che significa che pur di togliere di mezzo Berlusconi sarebbero pronti anche a rinnegare ciò che hanno votato solo pochi giorni fa.  Alla faccia della coerenza e della solidarietà al popolo libico massacrato dal Rais.

Se questa è l’ossessione della sinistra, ieri durante la seduta congiunta delle commissioni si è avuta chiara la percezione delle lacerazioni interne al Pd, capace attraverso gli interventi dei suoi massimi esponenti di evidenziare quattro posizioni diverse e tutte davanti a Bersani. Non solo la Finocchiaro e Di Pietro sulle parole di Napolitano, ma pure la linea oltranzista di Franceschini ed Enrico Letta, contrapposta alle perplessità della stessa Finocchiaro e dei dalemiani sull’opportunità di spingere oltremodo il piede sull’acceleratore del voto in Aula. Posizione contrapposte anche in casa del Terzo polo dove Rutelli vuole il passaggio parlamentare, Fli lo invoca in chiave anti-berlusconiana ma Casini frena e invita alla prudenza, convinto che un’accelerazione in questo senso potrebbe provocare gli stessi effetti della mozione di sfiducia del 14 dicembre, rivelatasi in boomerang micidiale per le opposizioni e in particolare per i finiani.

Ma certo, i riflettori sono tutti puntati sulla Lega. L’affondo di Maroni è parso come smentire l’apertura del capogruppo leghista soprattutto nel passaggio in cui il ministro dell’Interno considera il voto in Aula “inevitabile dal momento che sono state presentate mozioni e che la Lega non è contraria”. Un avvertimento per il Cav., una sfida al Pdl, un assist (più o meno indiretto) per le opposizioni. Tutto ciò mette in luce due aspetti.

Il primo: due visioni che si fronteggiano dentro il Carroccio, da un lato chi come i maroniani non è disposto a cedere di un millimetro e chi come Reguzzoni vorrebbe comunque intraprendere la via della mediazione. Ma c’è dell’altro: ieri in Transatlantico alcuni deputati padani non nascondevano l’irritazione del Senatur per il mancato coinvolgimento nella decisione assunta da Berlusconi lunedì prima nel confronto con La Russa e Frattini, poi nella telefonata con Obama. In altri termini, alla Lega non è andato giù di essersi trovata di fronte al fatto compiuto, cioè a una decisione sulla quale, oltretutto il partito di Bossi aveva già espresso forti critiche. Non è un caso che prima Bossi e oggi lo stesso Maroni abbiano insistito sul fatto che le scelte si fanno insieme. Messaggio al Cav. Ma cosa è accaduto?

Secondo alcuni esponenti del centrodestra alla base di tutto ci sarebbe stato solo un misunderstanding alla base di tutto: da un lato il Cav. convinto che a consultare l’alleato ci avessero già pensato i ministri degli Esteri e della Difesa, dall’altro questi ultimi che avrebbero dato per scontato il contrario. In ogni caso, si è trattato di un errore di comunicazione che adesso si è già tradotto in una nuova grana per Berlusconi. Nei colloqui coi suoi il premier non ha nascosto il malumore per l’irrigidimento della Lega su un tema così delicato. Della serie: chi sta al governo non si divide così.

L’altro dato interessante è che probabilmente più che la vicenda libica, a far saltare i nervi a Bossi è stata la vicenda Parlamat-Lactalis e in un certo senso la correzione da parte di Berlusconi della linea del ministro Tremonti sostenuta dal Carroccio, nel faccia a faccia con Sarkozy. Sarebbe questo il vero motivo dell’alzata di scudi leghista. Lo stesso Tremonti non avrebbe gradito l’atteggiamento del Cav. proprio quando lui aveva messo a punto un decreto per salvaguardare l’italianità delle aziende di fronte a tentativi di scalata da parte di gruppi stranieri, Francia in testa. Dunque, la partita tra Bossi e Berlusconi nelle prossime ore si giocherà su un doppio binario e da questo punto di vista la mediazione delle diplomazie pidielline e leghiste non appare facile. Resta la consapevolezza che la Lega in questa fase e a quindici giorni dal voto amministrativo non possa permettersi di aprire una crisi di governo o peggio ancora di staccare la spina all’esecutivo.

Ma  c’è chi ieri nei commenti in Transatlantico paventava uno scenario a tinte fosche in base al quale il redde rationem sarebbe solo posticipato a dopo le elezioni. Sarà anche l’esito delle consultazioni elettorali con la sfida di Milano in testa, la cartina di Tornasole per verificare la tenuta della maggioranza e dell’asse col Senatur.  Intanto Berlusconi prende tempo: nel colloquio con Calderoli le posizione sarebbero rimaste sostanzialmente le stesse, al punto che anche il consiglio dei ministri previsto per venerdì è stato rimandato alla prossima settimana proprio per lasciare spazio al lavoro dei mediatori.

Il tutto in attesa del faccia a faccia Berlusconi-Bossi (ancora non calendarizzato) che dirà molto e di più su che piega prenderà la situazione. Prima e dopo il voto amministrativo di maggio.