“Brangelina”, Obama e la crisi della globalizzazione

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“Brangelina”, Obama e la crisi della globalizzazione

05 Ottobre 2016

E’ davvero spassoso leggere un editoriale dello storico Niall Freguson sul divorzio tra Brad Pitt e Angelina Jolie“Brangelina”, come l’ha ribattezzato la stampa anglosassone – perché Ferguson riesce a tenere dentro lo stesso articolo la crisi sentimentale delle due celebri star americane, la fine della presidenza Obama e la “dark side” della globalizzazione, un modello economico-culturale che secondo il professore è entrato in una crisi profonda. “Avrebbero dovuto cancellare la settimana delle Nazioni Unite a New York, non appena si è diffusa la notizia che Angelina stava divorziando da Brad”, esordisce Ferguson. “Può una famiglia incarnare meglio le speranze di quella entità, nebulosa ma edificante – la comunità internazionale – più di quella di Brad e Angelina?”, si chiede lo storico scrivendo sulla edizione internazionale del South China Morning Post

“Angelina Jolie: ambasciatrice piena di buona volontà per l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati. Brad Pitt: fondatore di Not On Our Watch, associazione che cerca di ‘concentrare l’attenzione globale sulle crisi internazionali dimenticate’”, prosegue imperterrito Niall Ferguson. “C’è una Fondazione Jolie-Pitt, che ha sborsato decine di milioni di dollari per ‘numerose cause umanitarie in tutto il mondo’. Anche i bambini della coppia Jolie-Pitt sono un microcosmo delle Nazioni Unite: tra i loro figli, hanno adottato un bambino cambogiano, una ragazza etiope e un ragazzo vietnamita. I loro tre figli biologici sono nati all’estero, in Namibia e a Nizza”. Ferguson però passa sopra le ragioni del divorzio, “il terzo per lei e il secondo per lui”. “Secondo me, non è il gossip ma la fine di Brangelina la vera sostanza della storia. Fino a questa settimana infatti non avevo pienamente apprezzato che l’epoca della globalizzazione stava volgendo al termine. La separazione Jolie-Pitt mi ha fatto cadere il velo dagli occhi”.

Per Ferguson mettere in discussione questa versione edulcorata dell’umanitarismo figlio della globalizzazione diventa quindi l’occasione per parlare del presidente Obama, ormai alla fine del suo secondo mandato. “La parola ‘globale’ è apparsa 18 volte nel noiosamente bigotto discorso di commiato del presidente degli Stati Uniti Barack Obama all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Questo è quello che succede agli speech-writer, dopo quasi otto anni di produzione al bromuro. Quello che era cominciato come una aspirazione all’internazionalismo democratico finisce nel ‘globaloney’” (una idea assurda, un discorso sui massimi sistemi, ndr), chiosa Ferguson. “Il divario tra il sermone del presidente e il mondo reale non avrebbe potuto essere più stridente. Già, più attacchi terroristici – stavolta a New York, nel New Jersey e in Minnesota – e già, ancora più immigrati musulmani. Ancora un altro attacco informatico – che stavolta ha colpito 500 milioni di account Yahoo – e ancora un altro ‘hacker sponsorizzata da uno stato’. La globalizzazione sembra finalmente essere andata in tilt davanti ai nostri occhi”. 

Nel resto dell’articolo, Ferguson mette in guardiadall’ascesa dei populismi in Europa come in America, sottolineando però che se pure Donald Trump dovesse vincere le elezioni negli Usa non ci sarà un “armageddon”, come non c’è stato in Gran Bretagna dopo la vittoria di Brexit. E aggiunge che se nella campagna elettorale per le presidenziali Hillary Clinton dovesse difendere il modello della globalizzazione, la candidata democratica rischia seriamente di non diventare il nuovo inquilino della Casa Bianca. Per Ferguson, una eventuale vittoria di Trump produrrebbe non la fine del mondo ma “qualcosa di più prosaico: un tentativo di invertire alcuni aspetti della globalizzazione”. Tentativo che secondo lo storico non riuscirà comunque a sanare i mali aperti dalla globalizzazione, aprendo quindi la strada a nuovi esperimenti progressisti. Come dire, “Brangelina” è morta, evviva Brangelina?