Breve guida alla retorica degli sconfitti

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Breve guida alla retorica degli sconfitti

03 Maggio 2008

 Le ultime elezioni politiche hanno approfondito l’abisso tra ‘paese reale’ e ‘paese intellettuale’. Se si fosse votato nelle Università—e soprattutto nelle Facoltà umanistiche–, negli istituti di cultura, nelle redazioni dei giornali, negli studi televisivi (Mediaset compresa!), negli uffici editoriali, il centro-destra forse non avrebbe superato la soglia di sbarramento che ha penalizzato l’Arcobaleno. Avendo, invece, esteso il diritto elettorale alle ‘masse’—nel significato dato al termine da José Ortega y Gasset ne La rebellion  de las masas—l’esito della chiamata alle urne è stato assai diverso. Non pertanto gli sconfitti si rassegneranno alla débacle. Già il 14 aprile Peter Gomez dichiarava che l’attuale maggioranza parlamentare non è legittima, essendo stato abolito il voto di preferenza ed è facile prevedere la mobilitazione della ‘società civile’, espressione delle forze sane e profonde del paese, in occasione di cerimonie pubbliche o di visite pontificali. Quanti di destra e di sinistra hanno scelto come lavoro la ‘professione intellettuale’ farebbero bene, pertanto, a prepararsi alla controffensiva dei clercs e alle loro sperimentate strategie retoriche. Ne elenchiamo, in rapida sintesi, alcune, quelle che più seducono gli studenti di ogni ordine e grado.

Cancellazione dei fatti. E’ il vecchio espediente in uso specialmente nei paradisi del socialismo reale: consiste nel riferire un evento riportandone solo l’aspetto oggettivamente più sconvolgente. Ne è maestra indiscussa la corrispondente di RAI 3 Giovanna Botteri che ,tempo addietro ,denunciò l’orrore del bombardamento di un asilo palestinese da parte degli aerei israeliani senza neppure accennare alle motivazioni fornite dal governo di Gerusalemme ovvero che in quell’asilo era stata installata una rampa missilistica. Tali motivazioni erano un ‘fatto’, che ovviamente non ne escludeva altri ( quella rampa  c’era o non c’era?i servizi segreti ne avevano le prove o no?  l’esercito israeliano pensava che ci fossero realmente o ha solo fatto finta di crederlo? etc.) ma riferirle avrebbe significato indebolire l’indignazione. La censura ideologica non solo è un abito mentale che  nei più engagés  diventa quasi una seconda natura, ma talora può persino essere presentata come un dovere cui richiamare anche i giornali amici. Giovedì scorso, ad ‘Anno Zero’, un’invitata di Michele Santoro ha inveito contro ‘Repubblica’ rea di aver pubblicato un servizio sulla  paura che regna ormai sovrana, al calar delle tenebre, in molti quartieri romani attorniati da campi rom e minacciati da bande extracomunitarie, insinuando quasi una connivenza con i sostenitori di Gianni Alemanno. Se la pasionaria in questione fosse responsabile del dicastero degli Interni in un governo di ‘fronte popolare’, probabilmente  ripescherebbe le ‘veline’ da spedire giornalmente alle redazioni, indicando quali notizie dare e con quale risalto.

Uso scorretto dei dati. E’ lo sport preferito dei sociologi, degli psicologi, dei filosofi del diritto e della politica che hanno sostituito Michel Foucault a Karl Marx e Oliver Stone a Stanley Kubrick. Anche qui nihil   sub sole novi ma la strategia è molto più gettonata che in passato. Anche per la sua relativa semplicità e, per l’impatto che sulle menti deboli e inesperte, hanno gli elenchi delle nude cifre. Ci si lamenta dell’aumentata criminalità in una certa area? Ebbene si tratta di terrori senza fondamento giacché furti, rapine, stupri, stando alle statistiche, nel territorio considerato, non sono neppure un terzo rispetto a una qualche media ritenuta rilevante (la media nazionale, la media europea, la media occidentale etc.). Se il mio quartiere è degradato, se dopo le 21 non mi azzardo ad uscire di casa, se il mio appartamento, sito in zona a rischio, non vale neppure la metà del prezzo d’acquisto, non ho che da consolarmi pensando a chi sta molto peggio. Un corollario di questo stile di pensiero è costituito dalla stigmatizzazione dei titoli di giornale del tipo un marocchino stupra una quindicenne. <Ma che razzismo!> commenta indignato il sociologo del ‘Manifesto’ al quale nessuno ha spiegato che il danno recato a casa nostra dall’ospite fa più male del danno fatto dai nostri figli giacché questi sono parte della nostra ‘comunità di destino’–e quindi dobbiamo tenerceli–mentre l’altro non può esibire alcun ‘diritto naturale’ ad essere invitato a cena (tale invito dipende solo da noi e dalla nostra fiducia nella sua buona educazione e nella sua riconoscenza).

Squalifica dell’avversario e sua ridicolizzazione. E’ l’arma preferita soprattutto dagli uomini di spettacolo che, esaurita la creatività, si riciclano come profeti e imbonitori. L’<acquisto> più recente, Maurizio Crozza, ha dichiarato qualche giorno fa  a ‘La Stampa’: <Vorrei una scuola dove i professori, oltre a insegnarti Dante, ti leggono prima Gandhi e Kennedy, e poi gli statisti di oggi: Calderoli, Borghezio. Il confronto è deprimente. Quando paragoni la Santanché a Gandhi, è chiaro che la gente ride, ma non c’è nulla da ridere. Neanche posso fingere di essere contento perché, in quanto satirico, grazie a Berlusconi avrò materiale per i prossimi 5 anni>. Come si vede, nella lista non compare un solo nome del centro-sinistra prodiano. Evidentemente si ritiene che Alfonso Pecoraro Scanio e Francesco Caruso non sfigurino davanti a Gandhi e a Kennedy, né Francesco Rutelli dinanzi a Fiorello La Guardia o Vladimir Luxuria dinanzi a Evita Peron. Contento per i ‘materiali’ che si accinge a dargli Berlusconi, Crozza non sospetta neppure che il governo Prodi, il più impopolare dell’Italia repubblicana,  avrebbe potuto dargliene in quantità industriale in due anni di permanenza a Palazzo Chigi. In questo arco di tempo, c’è stato davvero di che ridere—o di che piangere ma già Benedetto Croce aveva fatto osservare che la grande comicità  contiene un elemento tragico come la grande tragicità contiene un elemento comico—solo che il comico di regime non sembra essersene accorto. Né si può fargliene una colpa dal momento che il mestiere di giullare dell’antiberlusconismo teologico rende molto di più della par condicio (quella vera, s’intende, non quella finta che, nei leader del proprio campo, evidenzia presunte affinità con quelli del campo avverso, una trovata furbesca che, nella fattispecie, non fa perdere  altri consensi alla sinistra e anzi può rassicurare qualche elettore di destra…).

Il buonismo. Consiste nell’esporre pensierini, che avrebbero mandato in solluchero il deamicisiano Garrone, come se  fossero drappi rossi  atti a smascherare e a rendere furibondi gli avversari..<L’etica pubblica—scrive, tra gli altri, Gian Enrico Rusconi nel suo catechismo laicista Non abusare di Dio (Ed. Rizzoli)  è l’estensione del senso della cittadinanza. È la disponibilità a definire insie­me le regole della convivenza partendo dal presupposto che la pluralità delle ‘visioni della vita’, delle ‘concezioni del bene’ o della ‘natura umana’ non è una disgrazia pubblica cui ci si deve rassegnare, ma l’essenza del pluralismo> E ancora < Il laico ha una visione diversa: l’ethos condiviso consiste nel­la comunanza delle regole condivise. Lo Stato è laico proprio perché non pretende dai cittadini identità  di credenze in campo etico-religioso ma reciproco rispetto e considerazione dei differenti convincimenti, sempre aperti al confronto>. Ovviamente i Rodotà, gli Amato, i Zagrebelsky sottoscriverebbero entusiasti parola per parola. Sennonché, ci si chiede, chi potrebbe davvero contestare simili ovvietà etiche che da secoli  costituiscono  la lectio   scontata non dell’illuminismo francese ma di quello anglo-scozzese? Il vero, drammatico, problema della ‘tolleranza’(parola brutta e ambigua che dovremmo sostituire una buona volta con ‘diritto’: non sono tenuto, infatti, a ‘tollerare’, l’islamico che vuol costruirsi, a sue spese, la moschea a Vattelapesca giacché riconoscere  il suo sacrosanto ‘diritto di libertà’ è per me un obbligo ineludibile) sta nel definirne i limiti, stabilendo, per ricordare taluni casi clamorosi, se una giovane maomettana in Olanda o in Italia sia libera di sposare chi vuole, in barba alla sharia che affida la scelta  del marito al clan familiare; o se il vilipendio alla religione debba valere solo per una confessione o per tutte.

 La siamesizzazione dei valori. Con questo orrendo neologismo–la siamesizzazione–mi riferisco a una retorica ben radicata nella nostra political culture, in base alla quale i valori forti, quelli che contano, sarebbero più inseparabili dei fratelli siamesi. E’ stato un tempo il ritornello preferito della filosofia azionista nelle sue varie versioni, dal socialismo liberale al liberalsocialismo. ‘Giustizia e libertà’ o eguaglianza e libertà sarebbero la stessa cosa: l’un termine garantisce l’altro e più  si aumenta l’uno, più  si rafforza l’altro. Si tratta di un sofisma difficile da smantellare, soprattutto in considerazione del consenso crescente che esso trova tra i filosofi liberal di oltre Atlantico, eppure non poco deleterio. Sarebbe stolto non riconoscere che esso contiene un nucleo di verità ma tale nucleo riguarda, per così dire, i livelli bassi. Chi è completamente privo di risorse—giacché le leggi dello Stato non gli assicurano neppure livelli minimi di sopravvivenza—non se ne fa niente della ‘libertà’ di coscienza, di pensiero, di propaganda e, d’altra parte, essere eguali agli altri, senza essere liberi, comporta l’impossibilità di difendersi dagli arbitri di chi vuol essere <più eguale degli altri>. Via via che si sale ,nella scala del quantum, però, salvare i cavoli dell’eguaglianza e la capra della libertà diventa sempre più difficile e si finisce, andando avanti, per scoprire che i due valori si avvicinano alla linea in cui il rapporto diventa ‘a somma zero’ Se in ossequio al principio costituzionale che fonda la Repubblica sul lavoro, si vuole garantire a tutti i cittadini  un’occupazione—un ‘posto’– è giocoforza assegnare allo Stato il controllo di tutta l’economia nazionale, anche senza ricorrere alle nazionalizzazioni (basta salvare le imprese decotte ‘invitando’le banche a convertire in  azioni i depositi dei loro clienti e facendo approvare dal Parlamento contributi governativi dettati dall’<utilità sociale>). In tal modo, si garantiscono salari e stipendi ma a scapito della libertà imprenditoriale, della logica del mercato, degli stessi diritti di proprietà (dei risparmiatori, s’intende). E’ giusto farlo, come sostengono i welfaristi costi-quel-che-costi? E’ una scelta disastrosa per il nostro sistema produttivo, come invece ritengono i liberisti ‘selvaggi’? Che si opti per un corno del dilemma o per l’altro, va riconosciuto che i fratelli erano siamesi da piccoli ma, con l’avanzare dell’età, si sono messi in proprio e in certi casi sono diventati fratelli coltelli. Ciò non esclude un qualche  bargaining tra i due valori, richiesto dal mantenimento dell’ordine pubblico( in democrazia le folle disoccupate sono una minaccia per la società civile) e affidato all’ars politica ma sicuramente non autorizza l’ottimismo della volontà  a mettere in ombra il pessimismo dell’intelligenza. Come ci ricorda un filosofo progressista ,Bernard Williams, abbiamo il dovere di <non dimenticare che ci sono molti casi in cui il fatto che le persone sono sottoposte a coercizione contro la loro volontà rappresenterà una perdita, anche se la coercizio­ne è fatta in nome di quel che è giusto>.Per la retorica dominante in Italia, invece, non ci sono ‘perdite’ma solo pregiudizi ideologici che saltano: limitare la libertà economica—come può essere consigliabile in certi frangenti della vita nazionale—,in questa ottica, significa affermare una libertà più ‘vera’ in quanto emancipata dalla ‘falsa coscienza’, far scadere un presunto valore a disvalore. D’altronde, se i nostri maitres-à-penser, prendessero sul serio quel ‘politeismo dei valori’ che sempre esaltano a parole,  rischierebbero di riconoscere: da un lato, che il fascismo non fu l’incarnazione del Male assoluto bensì la subordinazione di tutti i valori all’<unità e della potenza della nazione>, anch’esso un valore ma che per i liberal-democratici non sta– non deve stare–al primo posto; dall’altro, che nella nostra Costituzione i ‘diritti degli individui’ (la libertà) non sono ‘preesistenti’ e pertanto la loro tutela è subordinata al perseguimento del ‘bene collettivo’(la ‘giustizia’). Che quest’ultimo riservi al fisco quasi il 50% dei nostri redditi si può anche capire— specie dinanzi al rischio di bancarotta dello Stato—ma che il giurista’mite’ venga a dirci che quell’esborso si traduce, per i cittadini uti singuli, in una più sostanziale tutela dei loro diritti e delle loro libertà, questo è pura retorica. Che ricorda da vicino quella che nel fascismo vedeva la soluzione di tutti i conflitti ideali della storia, la sintesi del liberalismo e del collettivismo, dell’individualismo e dello statalismo. Nei nostri manuali di educazione civica, la <sintesi> c’è sempre ma il colore è cambiato.