Brown espugna il Massachusetts, a rischio la riforma sanitaria di Obama
20 Gennaio 2010
Nelle elezioni presidenziali del 1972, al termine del proprio primo mandato, Nixon, con oltre il 60% dei voti, stracciò il candidato democratico George McGovern. Il risultato fu una vittoria repubblicana in tutti gli Stati, tranne uno. Persino il Minnesota quella volta votò in maggioranza per il candidato repubblicano, fatto mai più ripetutosi nella storia.
L’unico stato su cinquanta a fare eccezione fu il Massachusetts.
Dati alla mano, può ben essere definito lo stato “più di sinistra” di tutti gli USA. Lì da decenni i democratici vincono sistematicamente tutte le elezioni: entrambi i seggi al Senato e tutti i dieci seggi alla Camera.
Ieri si sono tenute elezioni suppletive per riassegnare il seggio senatoriale che fu di Ted Kennedy ininterrottamente per ben 47 anni, dal 1962 (quando alla Casa Bianca regnavano il fratelli John e Bobby) alla sua morte lo scorso 25 agosto (l’altro seggio al senato è occupato dal 1985 da John Kerry, che nel 2004 non riuscì a battere George W Bush nelle elezioni presidenziali, ma qui, nel “suo” Stato, vinse con un risultato superiore del 27,6% rispetto alla media nazionale).
Che la vittoria potesse andare al candidato repubblicano Scott Brown, avvocato 50enne atletico, simpatico ma non certo celebre (se fosse biondo ricorderebbe il Brad Chase della serie TV “Boston Legal”), è una eventualità che sarebbe parso ridicolo anche solo ipotizzare fino a poche settimane fa (un po’ come se da noi si parlasse, che so, di un candidato di centrodestra eletto alla presidenza della Regione Toscana).
Ma clamorosamente, negli ultimi giorni questo evento inaudito è stato dato come possibile e poi probabile con crescente insistenza dai sondaggi dell’ultim’ora, tanto da costringere il presidente Obama ad un disperato comizio bostoniano dell’antivigilia a sostegno della candidata democratica Martha Coakley, candidatasi ad una elezione del genere “ti piace vincere facile” e ritrovatasi nell’incubo di un inatteso testa a testa.
E alla fine, è successo veramente.
Per il presidente Obama, che ci ha messo la faccia, è un referendum perso proprio nell’anniversario del suo insediamento. Ma la ricaduta sulla Casa Bianca non è solo simbolica. Il regolamento parlamentare del Senato mette la maggioranza al riparo dall’ostruzionismo dell’opposizione solo se può contare sul voto di almeno 60 dei cento senatori. Fino a ieri i democratici ne avevano esattamente 60, e con questa batosta elettorale hanno perso la “supermaggioranza” finendo in balia dell’opposizione repubblicana.
Il che accade proprio quando il Congresso stava per approvare la mitica riforma sanitaria voluta dalla Casa Bianca e faticosamente messa assieme, con una serie di compromessi al ribasso, durante tutto il primo anno di presidenza di Barack Obama. Il neosenatore Scott Brown, manco a dirlo, è stato eletto a furor di popolo con un programma elettorale che al primo posto mette proprio il voto contrario alla riforma. A questo punto, per salvare la riforma da morte certa, i democratici potrebbero optare per un ultimo, tragico compromesso: rinunciare ad un nuovo voto al Senato, e far votare alla Camera il testo che il Senato aveva già approvato. Solo che il testo approvato dal Senato, contrariamente a quello approvato dalla Camera, non prevede la cosiddetta “public option”, cioè l’istituzione di una assicurazione sanitaria statale che si ponga in concorrenza con quelle private. Quindi alla fine la partita potrebbe chiudersi con l’approvazione di una riforma talmente poco incisiva da rappresentare una vittoria di Pirro per l’attuale amministrazione.
In questo piccolo ma intenso momento di gloria per l’opposizione repubblicana, che con questo colpaccio rischia di vedersi improvvisamente rivitalizzata (anche troppo in fretta, senza prima di aver ritrovato un progetto e una leadership), c’è stato anche un grande assente. “Dov’è Romney?” si chiedeva ieri una cronista politica del Los Angeles Times, definendo “introvabile” e protagonista di una “ingombrante assenza” l’ex governatore repubblicano del Massachusetts. Prima di ieri, l’unica trasgressione al voto a sinistra nello Stato dei Kennedy e dell’Università di Harvard si era verificata con la sua elezione a Governatore: dal 2002 al 2007 (gli è poi succeduto un democratico afroamericano la cui elezione ha rappresentato, per molti versi, una sorta di “prova generale” rispetto a quella presidenziale di Obama).
Ve lo ricordate, Mitt Romney? Alle primarie presidenziali repubblicane del 2008 si era presentato come il favorito: di gran lunga il candidato più ricco (di mestiere fa il finanziere), dopo essere stato per molti anni un repubblicano molto, molto moderato (altrimenti non avrebbe avuto alcuna speranza in Massachusetts), si propose per la Casa Bianca tentando di riaccreditarsi come paladino del conservatorismo. In pratica, offriva al partito l’opportunità di replicare lo schema di gioco seguito da Bush: un ricco uomo di establishment con formazione manageriale, capace però di dissimulare la propria estrazione elitaria e di mettersi in sintonia con il “popolo della destra”. Perse, soprattutto perché venne percepito come un cinico opportunista (l’Economist scrisse: “se solo credesse in qualcosa sarebbe una potenza; purtroppo, però, il suo colore politico sembra cambiare a seconda delle persone che si trova di fronte”), in un momento in cui i repubblicani avvertivano la necessità di recuperare credibilità anche sul piano morale (e infatti la candidatura andò a John McCain, eroe di guerra e carismatico fustigatore della malapolitica). Ma non si è dato per vinto, e si è mantenuto molto presente sia sulla ribalta mediatica che nelle manovre lobbysti che, accreditandosi come uno dei più probabili sfidanti quando Obama tenterà la rielezione nel 2012 (ha già pubblicato il libro, classica mossa dell’aspirante candidato; su Facebook, il gruppo “Mitt Romney For President 2012” conta già più di 22mila membri).
Tuttavia, in questi giorni in cui proprio nel “suo” Massachusetts andava in scena questo evento tanto sensazionale, il presenzialista Mitt è stranamente il grande assente. Chissà se la sua latitanza ha a che fare con il fatto che, da Governatore dello Stato, varò una riforma sanitaria basata proprio su una forma di “public option”, che però ha ben presto dato pessima prova di sé. I casi sono due: o il diabolico Mitt ha in mente qualcosa, e la sua latitanza è frutto di un calcolo; oppure, semplicemente, Scott Brown non l’ha voluto troppo attorno, il che sarebbe la riprova definitiva della sua scarsa credibilità.