Buchanan insegna che essere conservatori va oltre le singole elezioni

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Buchanan insegna che essere conservatori va oltre le singole elezioni

28 Ottobre 2011

Esce il nuovo libro di Patrick J. Buchanan, Suicide of a Superpower: Will America Survive to 2025? (Thomas Dunne Books, New York 2011) e su The American Conservative (pubblicazione di cui Buchanan è tra i fondatori) lo recensisce Jack Hunter. Hunter è un conservatore di obbedienza libertarian, insomma uno (dei molti) che coniuga volentieri (e bene) uno struggente trasporto nei confronti di Ron Paul e la più smaccata irriducibilità “sudista”; la rubrica che tiene sul Charleston City Paper s’intitola del resto Southern Avenger.

La sua recensione di Buchanan trova opportunamente lo spazio e il modo per intonare un meritato inno al pensiero di Russell Kirk (1918-1994), il “padre” della rinascita conservatrice statunitense dalla metà del secolo XX, fondamentale anche se – scrive Buchanan in una “recensione della recensione del suo libro” – un poco dimenticato in favore di nomi più mediaticamente altisonanti ma – dice lui (e spesso non a torto) ­– meno profondi e addirittura spendibili.

Nondimeno, scrive Buchanan, il pensiero kirkiano is here to stay: ha le caratteristiche per sopravvivere ai marosi del tempo che fugge, per durare più dell’effimero che ci circonda e a cui si vuole ridurre tutto in una sospetta smania di “novità” e “attualità”, ma soprattutto i suoi piedi, colosso qual è, non sono di argilla.

Lo stesso Kirk di fronte all’agitarsi, il più delle volte inutile quando non positivamente dannoso, del nostro mondo – dalla politica all’economia, dalla tecnica persino alla cultura –, che pensa che tutto sia da risolvere in qualche secondo perché tutto ha solo la profondità di qualche secondo, si sarebbe assiso nella sua poltrona preferita nel salone della sua Piety Hill – la casa in stile “Rinascimento italiano” sperduta non nella prateria, ma fra i boschi del Michigan Centrale – e avrebbe imbracciato le sue armi di difesa migliori: un buon libro stampato almeno un paio di secoli prima e un bicchiere di sherry. Era infatti convinto di una cosa, Kirk: che la vita fosse troppo breve per poter essere sprecata in cose non di largo respiro, non di ampia prospettiva e non di profondo significato.

Buchanan coglie l’assist di Hunter e si lancia a rete. È la sua solita corsa. Da decenni, infatti, batte il medesimo chiodo. What Is It We Wish to Conserve?, come recita il titolo del suo articolo: che cos’è che noi conservatori abbiamo il dovere di conservare?

Buchanan è da moltissimo, se non persino da sempre, un intelligentissimo rompiglioni, un amabile bastiancontrario, un criticone sublime. Pesta i calli, ma ci azzecca. Toppa i dettagli, ma l’istinto è giusto. Dice cose di cui poi si pente (nel tono) e noi lo perdoniamo. Esagera troppo sull’antisionismo (radicato in un antigiudaismo teologico che non è l’antisemitismo, ma la soglia è cosi sottile da spaventare sempre) e qui niente condoni, ma a sinistra sono peggio e lui non è affatto il mostro che qualcuno vorrebbe; anzi, è il classico tipo il cui sparlar di cose israeliane forse forse altro non è che un urlo alla Edvard Munch d’amore estremo per Sion.

Buchanan è al cuore del movimento conservatore sin dall’inizio. Ha fatto il giornalista e lo speech-writer per presidenti, ma (notare, please, la congiunzione avversativa) è un uomo di cultura profonda. Di quel mondo conosce protagonisti e comparse, fatti e misfatti, promesse e delusioni. Ci ha creduto a lungo, ne è rimasto deluso, non ha mai però gettato la spugna. Si è scelto il ruolo di coscienza critica. Dice che i conservatori avevano le carte in regola per riportare il Paese sui binari giusti e lì mantenerlo in carreggiata, che in questo senso han fatto molto lungo gli anni, che hanno anche pure conquistato i vertici con l’elezione alla Casa Bianca di Ronald W. Reagan (1911-2004) nel 1980, ma che alle troppe rivoluzioni di cultura, di costume e di politica che in un cinquantennio hanno travolto l’Occidente non sono riusciti a resistere. Paragona tutto alla Vandea, Buchanan, la cui insurrezione onorevole e doverosa non riuscì però ad avere ragione della sovversione giacobina. A furia di vivere nel tempo anche i conservatori hanno secondo Buchanan finito per dimenticarsi di non essere del tempo, e così hanno marcato visita. Mica tutti i torti.

Buchanan cita Edmund Burke (1729-1797), il “padre” del pensiero conservatore e contro-rivoluzionario occidentale in nome del diritto naturale e di quelli che noi oggi chiamiamo “princìpi non negoziabili”. Non è più un bimbo, Buchanan: forse teme di non avere il tempo materiale per vedere una nuova alba. Sembra un rimpianto, il suo, ma in realtà è una chiamata alle armi.

"Convertire un popolo a nuovi modo di pensare circa le verità fondamentali è cosa che si pone oltre le competenze della politica e necessita di un John Wesley" [1703-1791], il pastore anglicano che per riformare l’anglicanesimo fondò il metodismo – il cattolico “tradizionalista” Buchanan sa bene quanti buoni e generosi protestanti vi siano nel gregge in cui è stato posto a vivere ‒, "o un san Paolo". Perché le rivoluzioni a cui i conservatori debbono opporsi riguardano ciò che gli uomini "credono su Dio e sull’uomo, su ciò che è giusto e su ciò che è sbagliato, sul bene e sul male", cose mica da poco. Buchanan ancora grida perché non ha perso la speranza, nonostante tutto. E che torni a indicare il maestro Kirk per insegnare che il conservatorismo vero, pieno e nobile non coincide solo con elezioni, talk-show e mordi-e-fuggi è il migliore dei goal di capitan Buchanan.

Qualcuno che gli risponda adsum secondo me però c’è.

Marco Respinti è presidente del Columbia Institute, direttore del Centro Studi Russell Kirk e autore di L’ora dei “Tea Party”. Diario di una rivolta americana.