Burke e la modernità di un classico del pensiero conservatore

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Burke e la modernità di un classico del pensiero conservatore

Burke e la modernità di un classico del pensiero conservatore

13 Gennaio 2008

Il 12 gennaio 1729 nacque a
Dublino Edmund Burke, da padre protestante e madre cattolica. Educato secondo
la religione anglicana, a cui restò fedele per tutta la vita, fu un
intellettuale dal genio sottile, ma allo stesso tempo travolgente
nell’espressione. Filosofò d’estetica, e a lui si deve la celebre definizione
di sublime che il XVIII secolo coniugò in poesia, ma anche in magnifica
pittura. Il saggio che lo rese per la prima volta noto al grande pubblico fu
“Un’indagine filosofica sull’origine delle nostre idee di Bello e Sublime”, del
1757.

A partire dal 1765 si dedicò alla
politica. Eletto alla Camera dei Comini inglese tra le fila del partito Whig,
cioè quello dei liberali, si distinse presto per le sue battaglie a difesa
della popolazione indiana oppressa dai rappresentanti della Corona: grazie ad
alcuni suoi interventi e alla sua opera di costante denuncia, il governatore
Hastings fu richiamato in patria e processato. Ancora più clamorosa la seconda
battaglia liberale di Burke: nel 1775 egli si schierò a favore dei coloni
americani e del loro diritto ad essere rappresentati, difendendoli dalle pretese
di dispotismo fiscale del re Giorgio III. A questo punto Burke era diventato il
più stretto collaboratore del capo del partito Whig, Fox, e rappresentava un
modello per tutti gli inglesi favorevoli alla limitazione del potere regio.

Molti si erano illusi, credendo
quest’indomito irlandese un progressista, o addirittura un estremista: in
realtà, egli era semplicemente un liberale in senso moderno e riconosceva i diritti
di tutti gli uomini, purché fossero ancorati a situazioni ed esigenze non
astratte, non ideologiche, ma reali e rispettose dell’equilibrio sociale. Egli
infatti, attento lettore di Montesquieu, aveva mostrato fino ad ora solo uno
dei suoi due lati; l’altro, quello del conservatore, sorprese notevolmente i
colleghi deputati e gli stessi amici più cari.

Tutto accadde a seguito della
Rivoluzione francese, l’atto violento con cui i cittadini della più grande
potenza continentale, mossi da pretese anche ragionevoli, commisero però
crimini inauditi (come le stragi nelle carceri, il regicidio, il periodo del
Terrore) e sconfinarono nella trappola peggiore: l’astrattismo e la tabula
rasa. La reazione del nostro fu feroce: rispondendo al discorso di un certo
Price, che aveva osato accomunare la Gloriosa Rivoluzione inglese con la
Rivoluzione francese di quegli anni, Burke scrisse di getto e con orgoglio
ferito le “Riflessioni sulla Rivoluzione francese”, un testo di straordinaria
importanza per la Storia del pensiero politico moderno. Qui infatti nasce il
Conservatorismo liberale, come provato dagli studi di Russell Amos Kirk.

Le “Riflessioni sulla Rivoluzione
francese” nascono inizialmente come una lettera privata, ma poi si accrescono e
divengono così urgenti da esser pubblicate in volume, riscuotendo enorme
successo. Urgenti, perché ogni nuova notizia proveniente da oltre la Manica
accresceva i timori di Burke e confermava la deriva estremista e distruttrice
dei rivoluzionari. Urgenti, anche e soprattutto perché molti inglesi (tra cui lo
stesso Fox) tardavano ad aprire gli occhi e s’illudevano che questo evento
fosse accostabile alla Gloriosa Rivoluzione inglese di un secolo prima:
sacrilegio, bestemmia alle orecchie di Burke! Gli inglesi, è vero, avevano
reagito ai soprusi del re, ma per difendere la Costituzione e la Tradizione; al
contrario, i francesi stavano calpestando ogni regola, capovolgendo ogni
principio e trasformandosi in “architetti della rovina”. Gli inglesi avevano
ristabilito il sano equilibrio politico, mentre i francesi stavano cancellando
la loro Storia e polverizzando le basi della convivenza civile.

La posizione antirivoluzionaria
di Burke produsse una spaccatura all’interno del partito Whig e la fine della
sua amicizia con Fox.

Le “Riflessioni”, capolavoro di
collera ed orgoglio, geniale sfogo carico di previsioni poi tragicamente
confermate, si possono dividere in due parti: dopo la prima, che si concentra come
detto sulle differenze tra le due Rivoluzioni, segue la seconda, che analizza
nel dettaglio i pericoli corsi dalla Francia, in balia di un’Assemblea
Nazionale dominata dal dogma politico di Seyes. Seyes, ideologo della
Rivoluzione, che non a caso ammirava Locke, mentre era freddo verso Montesquieu
e disprezzava la Costituzione inglese.

E proprio l’opera più famosa
dell’abate francese, “Che cos’è il Terzo stato?”, si può collocare agli
antipodi delle “Riflessioni”: radicale tabula rasa da una parte, “propensione a
conservare e talento di migliorare” dall’altra.

Burke accusa chi non rispetta la
Tradizione di “presunzione”, condanna la ragione individualista e razionalista per
difendere quella collettiva e religiosa, prova orrore per i diritti astratti e
sottolinea che la “libertà ordinata” non va confusa con l’anarchia: già
immagina che la lanterna illuminista sarà sorretta dal sangue della
ghigliottina. Scrive: “Il governo è un’invenzione della saggezza umana, per
provvedere ai bisogni degli uomini. Tra tutti questi bisogni è bene che il più
impellente sia quello che consiste nel contenere entro limiti ragionevoli le
passioni. In tal senso la costrizione fa parte, come la libertà, dei diritti
dell’uomo.”

E ancora, contro i filosofi dei
circoli parigini: “Tutti i pretesi diritti di questi teorici sono radicali e
sono falsi moralmente e politicamente nella misura in cui sono veri
metafisicamente. I diritti dell’uomo risiedono in una certa medietà che è
impossibile definire.”

Guardiamo le molte proposte
politiche libertarie di oggi: non nascono forse da “pretesi diritti”? Ecco
perché la lezione di Burke è ancora utile, ecco perché noi Conservatori
liberali non possiamo fare a meno di ispirarci a colui che nel suo servizio
politico testimoniò sia coraggio nel difendere i diritti di libertà, anche
altrui, sia intelligenza nel cercare di arginare chi, sbriciolando la
Tradizione, apriva quel baratro di identità che ancora in questi anni scontiamo.

Rispondendo sempre a Seyes,
invitava così a distinguere la matematica dalla politica: “La volontà della
maggioranza e gli interessi della maggioranza sono raramente la stessa cosa.”

E perfino il Conservatorismo
compassionevole, quella particolare attenzione verso i deboli e i poveri, verso
le loro sofferenze all’interno delle dinamiche economiche, che però non sfocia
nell’ideologia socialista delle sinistre moderne, nasce con lui. Tanto che lo
storico Mario Einaudi, nel suo saggio “Il primo Rousseau” (edito da Piccola
biblioteca Einaudi) del 1967, scriveva che il filosofo ginevrino è visto,
“insieme a Burke, come il nemico del capitalismo moderno”. “Insieme a Burke”
appunto.

Le violenze della Rivoluzione; la
difficoltà per i francesi di ricostruire sulle macerie di un passato distrutto
dalla tracotanza una nuova unità nazionale; il vuoto di potere e l’instabilità
di istituzioni nuove, create astrattamente; l’onnipotenza dell’esercito e
l’ascesa di un generale. Burke, pur morendo nel 1797, aveva previsto ogni risvolto
futuro.

E, cosa ancor più sorprendente,
leggendo le sue pagine, anche i problemi più attuali sembrano essere delineati:
lo scientismo che usa l’uomo come mezzo, il laicismo che rigetta i valori
religiosi, il capitalismo selvaggio che calpesta le tradizioni locali.

Concludo con le parole dello
storico Jean Jacques Chevallier: “Burke, Cassandra amara e frenetica,
denunciava le future calamità che la Rivoluzione avrebbe prodotto. I fatti
volgevano nella direzione da lui preannunciata e gli davano ragione, sempre più
ragione” (“Le grandi opere del pensiero politico”, edizioni Il Mulino).

Burke, geniale osservatore non
meno che vulcanico scrittore, aveva quindi realmente colto la nascita dei
demoni dell’Occidente, vivendo consapevolmente gli anni drammatici che
segnarono la fine dell’età moderna.