Bush è il passato ma l’America  è il futuro

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Bush è il passato ma l’America è il futuro

11 Giugno 2008

Il presidente degli Stati Uniti George W. Bush incontra il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Siamo pronti a scommettere che leggeremo cronache con lo sguardo rivolto all’indietro. Penne progressiste e conservatrici verranno intinte in un vecchio inchiostro. Da una parte risorgerà la metafora della politica della pacca sulla spalla, dall’altra l’entusiasmo per il ritorno dell’amico americano. Polvere e ragnatele. 

Bush e Berlusconi si trovano in una condizione diametralmente opposta: il numero uno della Casa Bianca è alla fine del suo mandato e con il gradimento a picco tra gli elettori repubblicani; il capo del governo italiano gode di una larga maggioranza, è all’inizio del suo mandato e con una fiducia presso l’elettorato in crescita. Il primo è al tramonto, il secondo all’alba. Bush è nel pieno dei suoi poteri ma nello stesso tempo non può garantire la gestione a lungo termine dell’agenda politica dell’alleato americano.

La Casa Bianca del futuro. Si tratta di una situazione delicata e per questo i forti e solidi rapporti – anche di personale amicizia – devono pesare meno nella partita diplomatica in corso. Alla Casa Bianca infatti si prepara un regime change che in qualsiasi caso – vittoria di John McCain o di Barak Obama – segnerà una discontinuità con la presidenza Bush. Ci sarà una cesura netta rispetto al primo mandato del presidente texano e un significativo aggiustamento delle politiche adottate dall’amministrazione nel second term. Per gli Stati Uniti si tratta di una discontinuità necessaria. Ovviamente, le ricette di McCain e Obama sono differenti, soprattutto in politica estera e in particolare sui dossier più caldi che riguardano la strategia in Afghanistan e Irak. In ogni caso, il nostro governo dovrà tener conto di uno scenario incerto e in grande evoluzione.

Si è detto che l’Italia è disposta a rendere più operativo il proprio ruolo in Afghanistan. Dove per "operativo" bisogna intendere una sola cosa: siamo disposti a sparare? Siamo disposti a partecipare a operazioni di difesa attiva e attacco preventivo? Anche e soprattutto rispondendo ad alla domanda che più di tutte bisogna porre per capire qual è lo stato dell’arte: chi muore in Afghanistan? Ecco una tabella che parla chiaro: 


TAB. 1 Perdite degli Stati Uniti a confronto con gli altri Paesi.
(Fonte: iCasualties.org)

Muoiono soprattutto i soldati statunitensi, inglesi e canadesi. La maggior parte delle truppe combattenti parla inglese, viene dal “nuovo mondo” americano, dal reame del Commonwealth. E’ un dato non solo militare, ma culturale. L’Europa fa fatica ad accettare la dura legge della guerra e vive con il mito delle “zero perdite”. Si dirà che l’operazione Enduring Freedom fu un affare prevalentemente americano. Errore. L’invasione dell’Afghanistan fu autorizzata dall’Onu e in virtù dell’articolo 5 della Nato fu una missione collettiva di reazione all’attacco subito da un Paese aderente al Patto Atlantico. Non è dunque un fatto che riguarda soltanto gli Stati Uniti, a maggior ragione dopo il cambiamento dello status della missione che è passata sotto l’ombrello Nato sotto il nome di Isaf. 

Vediamo nel dettaglio, le perdite per Paese:


Tab. 2 Perdite divise nazione per nazione
(Fonte: iCasualties.org)

Operazione a tenaglia sull’Afghanistan. Le cose sono più forti degli uomini. E per questo i paesi combattenti in Afghanistan stanno conducendo un’operazione a tenaglia sugli alleati meno impegnati sul fronte. L’incontro tra il primo ministro canadese Stephen Harper e Silvio Berlusconi è passato quasi inosservato, ma in realtà faceva parte di questa strategia della persuasione. Il Canada confermerà i suoi impegni in Afghanistan a patto che gli alleati mettano più “boots on the ground”, più stivali sul terreno e maggiore flessibilità nell’impiego delle truppe. Ecco perché la presidenza del Consiglio subito dopo l’incontro di fine maggio tra Harper e Berlusconi sottolineava in una nota un possibile cambio di rotta: "L’Italia, in uno spirito di solidarietà politica alleata, ha avviato una riflessione in vista di una possibile revisione delle modalità operative d’impiego dei propri militari impegnati nella missione Isaf in Afghanistan. Una decisione dovrebbe essere adottata entro il mese di giugno". Gli Stati Uniti sono ovviamente il capofila di questa azione diplomatica e sia McCain che Obama hanno più volte sottolineato la necessità di un maggior coinvolgimento dei Paesi Europei. La linea di continuità sul territorio afgano-pakistano s’interrompe però sul fronte iracheno. E’ sulle sponde del Tigri e dell’Eufrate che i due candidati alla Casa Bianca si dividono. Il democratico promette la fine del conflitto e il ritiro in tempi rapidi delle truppe americane dispiegate in Irak. Mentre il repubblicano McCain è uno dei sostenitori e ispiratori della strategia messa a punto dal generale David H. Petraeus.1

La nuova mappa del Pentagono. Qui entra in gioco la politica del Pentagono. Petraeus infatti non è più soltanto il padre della “surge” che ha dato ottimi risultati, al punto da far dichiarare al governo iracheno la sostanziale disfatta di al Qaeda in Irak, il generale quattro stelle è molto di più. Promosso dal ministro della Difesa Robert Gates al vertice del Centcom, Petraeus è lo stratega delle operazioni militari in tutto il Medio Oriente, il suo mirino spazia in diagonale dal Sudan al Kazakhstan, passando attraverso l’Arabia Saudita, l’Iran, il Pakistan, fino ai confini con la Russia e la Cina, i due giganti riemergenti, da sempre avversari degli Stati Uniti in campo militare prima e oggi anche economico. Il prossimo presidente degli Stati Uniti dovrà dunque tenere in massima considerazione le indicazioni di Petraeus che per l’Irak prevede un ritiro graduale e non repentino delle truppe. A Baghdad serve un esercito stabile ed efficiente e per costruirlo occorrono tempo, tenacia e soprattutto istruttori.  

L’Italia in questo campo ha eccellenti professionalità, i carabinieri sono al top nel mondo. In questo momento in Iraq la Difesa italiana è ancora presente proprio attraverso la Nato Training Mission, un significativo invio di addestratori per l’esercito iracheno sarebbe un grande aiuto per il consolidamento del governo iracheno e la sicurezza in tutto il Medio Oriente. E’ una opzione sul tavolo del governo e sarebbe in linea con le scelte di entrambi i futuri presidenti americani. Ma è nella disponibilità e nella reale volontà del governo italiano? 

Posture globale. Il Pentagono studia il dispiegamento globale, la “posture”, delle sue forze militari, alla luce delle nuove strategie e dell’emergere di altre minacce alla sicurezza mondiale. Nessun punto del globo può dirsi sicuro: non lo sono gli Stati Uniti (un attacco sul suolo americano da parte del terrorismo islamico è ampiamente previsto e l’intelligence non si chiede “se” ma “quando”), non lo è l’area del Pacifico (le tensioni tra Cina e Giappone sono in aumento e il Sol Levante sta ricostruendo il suo sistema di difesa attiva), non è sicuro il Sudamerica (in preda alle rivoluzioni rosse e a una silenziosa corsa agli armamenti), è vulnerabilissima l’Europa (ma dovrà pensare a prevenire e difendersi sempre più con i suoi mezzi), non lo è l’Africa (vittima urlante di una politica post-coloniale demenziale) non lo è il Sud-Est Asiatico (le ombre tra India e Pakistan, due potenze nucleari, restano) e non è certo sulla road map della pace il Medio Oriente. Purtroppo l’Iran sta vincendo la strategia del talk and build e corre verso la bomba atomica tanto rapidamente da far accelerare anche lo studio di un attacco preventivo contro Teheran. 

Il buco nero del Libano. Di fronte a questo scenario, anche un Paese come l’Italia deve progettare il suo futuro e il dispiegamento delle sue Forze Armate. Formidabile strumento di politica estera, la Difesa ha bisogno di una robusta iniezione di risorse in bilancio. Se non si incrementa la spesa, ci sono ben poche speranze di contare di più. E se non ci sono soldi, occorrerà valutare la natura e l’efficacia delle missioni alle quali partecipa il nostro Paese. La missione in Libano, oggi il più dispendioso capitolo della nostra azione militare nella comunità internazionale è un papocchio strategico e politico senza precedenti. Le regole di ingaggio fissate dai consiglieri militari dell’Onu sembrano costruite apposta per consentire a Hezbollah di riarmarsi senza alcun disturbo. Israele ha accusato l’Italia di fare spallucce al passaggio di camion di Hezbollah pieni d’armi (scriviamo di fatti concreti, non di supposizioni) e la confusione regna sovrana al Sud del Libano mentre da Gaza partono razzi contro le città israeliane del Nord. Ciò che succede in casa di Hamas lascia tracce anche in Libano e il nuovo governo di intesa nazionale a Beirut deve fare i conti con la struttura parallela (esercito e rete di comunicazione) messa in piedi da Hebollah. Il movimento transanazionale sciita è più che mai attivo e potente: “distrarre” gli Stati Uniti dal dossier Iran con una nuova escalation del conflitto in Libano sarebbe provvidenziale per Teheran. L’Italia rischia di essere un paese tra due fuochi. Questo all’alleato americano – che aveva rovesciato la clessidra e fermato l’esercito israeliano nella sua azione in Libano – va detto con una chiarezza che si riserva solo agli amici.

L’incontro tra Bush e Berlusconi sarà cordiale, ricco di aggettivi e calore. E’ giusto che sia così, a Bush la storia alla fine renderà molti più meriti di quanti oggi ne tributi la cronaca e l’Italia è un naturale alleato degli Stati Uniti. Ma attenzione: la nostra strategia di politica estera non può essere sintonizzata sul presidente uscente. L’America di McCain o di Obama in ogni caso avrà una parola d’ordine che si chiama “change” e il nostro Paese dovrà fare le sue scelte guardando in faccia un presidente in carica per quattro anni, non per sei mesi.