Bush è il presidente più influente che gli Usa abbiano avuto in Medio Oriente

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Bush è il presidente più influente che gli Usa abbiano avuto in Medio Oriente

15 Gennaio 2008

Era nel destino, o “stava scritto”, come direbbero gli arabi, che George W. Bush, cresciuto a Midland, nel Texas, molto lontano dalle complessità del mondo esterno, sarebbe stato il leader che avrebbe a portato l’America così addentro negli affari arabi ed islamici.

Il viaggio del Presidente Bush in Egitto, in Israele, nei Territori Palestinesi, nel Regno Saudita, nel Kuwait, nel Bahrain e negli emirati Arabi Uniti non è una marcia trionfale. Il Signor Bush ormai conosce bene, l’astuzia e lo strazio di quella regione. Dopo sette anni e due grandi guerre nel “Grande Medio Oriente”, dopo una campagna ideologica contro il terrore e le malignità del mondo arabo, non ci sarà più spavalderia e fragore americano.

Il Signor Bush, però, sta viaggiando tra i paesaggi e i luoghi creati dalle sue stesse imprese. Il Presidente è, infatti e senz’altro, il più influente capo politico nella lunga tradizione americana di incontri con queste terre. E anche se questa volta non è nell’itinerario del Signor Bush, Baghdad in un certo senso rimane nello sfondo e allo stesso tempo incentiva il suo passaggio. Soltanto un anno fa, un viaggio del genere sarebbe stato semplicemente impensabile. Allora il progetto americano in Iraq appariva traballante, e si parlava di come l’America stesse mandando gli iracheni alla deriva. È a quel punto che il Signor Bush ha rilanciato – e, a quanto pare, la sua audace puntata ha ben pagato.

La sua guerra, infatti, ha dato i natali ad un nuovo Iraq. Tra l’altro, la forma di questo nuovo Iraq non è difficile da distinguere e si può sostenere in buona confidenza che lo stato di cose a Baghdad sia ormai irreversibile. C’è la supremazia sciita, l’autonomia curda nel nord e uno spazio di manovra  per gli arabi sunniti – e si tratta di un ruolo leggermente più grande se comparato al peso demografico di questa comunità. E non è certo stata la “diplomazia locale” a dare vita a questo nuovo Iraq. I vicini arabi l’hanno infatti combattuto con tutti i mezzi.

Ma c’è anche un profondo affluente di pragmatismo arabo ed un riluttante rispetto per i verdetti della storia e per il diritto alla conquista. D’altronde in quale altro modo, di grazia, la classe dominante araba ha costruito i suoi imperi nel Golfo e in Giordania?

Dal loro punto di vista nei confronti del nuovo ordine di cose in Iraq, i dispensatori della verità araba – sia i sovrani che i sapientoni – hanno dichiarato di opporsi a questa nuova nazione perché proveniva dal potere Americano, e ora gravita intorno alla stessa orbita statunitense. Però, dall’Egitto al Kuwait e fino al Bahrein, è la pax americana a mantenere la regione. La vera ragione di tutta questa agitazione da parte degli arabi sta nel fatto che la pax americana in Iraq, che fin’ora era basata sulle terre degli arabi sunniti, ha messo piede in un paese a guida sciita.

A sentire le trasmissioni di Al Jazeera, gli iracheni avrebbero peccato contro l’ordine universale per la presenza americana in mezzo a loro. Solo che una delle grandi basi aeree a stelle e strisce, quella di Al Udeid, si trova ad un tiro di schioppo dal quartier generale di Al Jazeera in Qatar.

Esiste un contrasto tra il progetto americano da una parte e l’ordine del potere arabo dall’altra. Gli arabi non potrebbero, anche volendolo, contrastare o sovvertire questo nuovo Iraq, ma gli autocrati – abbattuti e nervosi dalla caduta di Saddam Hussein, e alquanto preoccupati dallo spettacolo delle elezioni libere in Iraq – sono sopravvissuti al momento di entusiasmo iracheno.

Si sono prima nascosti, aspettando che l’iniziale euforia della Guerra in Iraq andasse scemando, poi hanno preso parte all’anarchia e alla violenza irachena, fomentandola anche. Alla luce di questa nuova e aliena ondata di libertà, hanno quindi  manipolato il nervosismo della loro stessa gente in tutte le maniere. Sessanta anni di tirannia sono meglio di un giorno d’anarchia, recita una vecchia massima araba.

Hosni Mubarak, dal canto suo, si prende il denaro americano e nel frattempo fa il doppio gioco con Washington ogni volta che può. È un poliziotto all’erta, sospettoso nei riguardi della verità. Ha dovuto affrontare una fragile opposizione democratica durante il movimento denominato Kifaya (Basta!), qualche anno fa. Ma l’autocrazia ha resistito. Il palazzo del Re ha chiarito che la lontana superpotenza straniera era costretta a giocare secondo le sue regole. Comunque non c’è mai stata un proposta seria che chiedesse di tagliare l’aiuto americano al regime di Mubarak.

Nella Penisola Araba e nel Golfo, una nuova e inaspettata buona sorte ha riscritto le regole d’ingaggio tra la pax americana e i regimi al potere. Il fatto che il Signor Bush stia viaggiando attraverso paesi inondati da soldi rappresenta una suprema e crudele ironia: dal settembre 2001 in poi, l’America si è assunta il fardello di un grande sforzo militare  – e dei costi finanziari che ne conseguono – nello stesso momento in cui le terre del petrolio stavano sperimentando una sorprendente trasfusione di ricchezza.

Negli ultimi sei anni, l’Arabia Saudita ha incamerato circa 900 miliardi di dollari dalla vendita del petrolio; si dice che da solo, lo scarsamente popolato emirato di Abu Dhabi, disponga di un fondo di ricchezza reale di miliardi e miliardi di dollari. Gli Stati petroliferi sono stati in grado di abbattere il loro debito pubblico, che aveva rappresentato un problema di proporzioni non indifferenti e aveva pure causato la disaffezione delle loro popolazioni. C’è stato un tempo, durante gli anni novanta, in cui il debito pubblico aveva raggiunto il 120% del tasso di crescita saudita; oggi quello stesso numero si attesta intorno al 5%. Ora si avverte della spavalderia in quel mondo deserto, accompagnata da un certo sentore di liberazione dalle tormente economiche.    

Il personale religioso ufficiale si è unito alla causa della battaglia contro il jihadismo, spogliando così i fondamentalisti della loro coperta religiosa. Soppesate per un attimo questa fatwa, pronunciata lo scorso ottobre dallo Sceicco Abdulaziz bin Abdallah al-Sheikh, il Mufti del Regno – e il maggiore giurista religioso dell’Arabia Saudita. Si avverte un senso d’evasione in questa fatwa, che contiene, però, anche un giudizio, un resoconto.

“Qualcuno ha fatto notare che, durante gli ultimi anni, certi nostri figli hanno lasciato le terre saudite per perseguire il jihad all’estero e nel sentiero di Dio. Ma questi giovani uomini non possiedono abbastanza senno per distinguere tra la verità e la falsità, e questo è uno dei motivi per cui essi sono caduti nella trappola di elementi sospetti e di organizzazioni straniere che hanno giocato con loro nel nome del jihad”.

Il wahabismo tradizionale ha sempre predicato l’obbedienza al sovrano, e questo giurista wahabita lo stava ri-affermando contro i liberi predicatori: “Gli uomini di religione sono d’accordo sul fatto che non possa esserci jihad se non sotto l’egida del al-amr (il monarca) e sotto il suo comando. Il viaggio all’estero senza il uso permesso rappresenta una violazione e una disobbedienza alla fede”.

Anche se l’Iraq non è direttamente menzionato in questa fatwa, ci si nasconde dietro: è questa la nuova destinazione dei jihadisti e quello che intendeva fare il giurista era tappare il vulcano.

La riforma dell’Arabia non è certo una cortesia dovuta ad un capo di stato americano durante una sua breve visita, o a qualcuno preoccupato per il fermento nel mercato del petrolio. È invece un imperativo del reame e semmai qualcosa dovuto ai giovani sauditi che reclamano un mondo più “normale”.

Sono stati i blogger coraggiosi e tutte le donne e i giovani professionisti a prendere in mano la causa della riforma. Quello che il potere americano deve a queste persone è il contenuto dello lo stesso messaggio che gli è stato trasmesso durante tutti questi anni: loro non sono da soli.

Leale alla sua promessa, e all’integrità morale della sua campagna contro il terrore, il Signor Bush non poserà una corona di fiori sulla tomba di Yasser Arafat a Ramallah. Ed è proprio così che dovrebbe essere.

Poco più di cinque anni fa, il Signor Bush ha fatto una promessa ai palestinesi che riguardava la loro condizione di Stato, ed era legata al supporto americano per quello scopo, ma ha anche condizionato quello stesso supporto alla fine del culto della violenza da parte palestinese. Non avrebbe mai garantito ad Arafat un’oncia dell’indulgenza che questi ha invece ricevuto da Clinton per otto lunghi anni. Si trattava indubbiamente del giusto appello, sia da un punto di vista strategico che politico.

Il culto delle armi aveva distrutto la vita politica dei palestinesi ai quali serviva disperatamente un’accomodazione con Israele, ma hanno votato, all’inizio del 2006, per Hamas.

La promessa dello Stato palestinese era ancora valida, ma la forza e l’ambizione del progetto del Signor Bush in Iraq, oltre alla preoccupazione per la corsa verso il potere dell’Iran, avevano nel frattempo sbilanciato tutte le attenzioni verso il mondo arabo e il Golfo Persico, lontano dai palestinesi. Da quando la posizione americana in Iraq fu riparata, però, il Signor Bush ha ripreso in mano ancora una volta la questione palestinese, forse per compiacere il suo Segretario di Stato.

È in questa luce che la conferenza di Annapolis dovrebbe essere interpretata: c’era un po’ di autorità da spartirsi. Il fatto di aver riconosciuto che la Palestina non rappresentava la preoccupazione principale degli arabi, o la fonte principale di tutte i malanni politici, si deve interamente al Signor Bush.

I realisti hanno sempre dubitato di questa campagna di Bush per la libertà nel mondo arabo e in quello musulmano. È come picconare il mare, dicevano. Forse Nathan Sharansky aveva ragione quando sosteneva che, nel battersi per quella libertà, il Signor Bush era un uomo solo, anche all’interno della sua stessa amministrazione.

Bush ha preso a cuore la causa del Libano, la rivoluzione dei cedri scoppiata nel 2005 era figlia della sua campagna per la libertà. Un dominio siriano che era stato costruito metodicamente nel corso di più di tre decadi fu abbandonato in fretta, a tal punto erano spaventati i siriani per la possibilità che il potere americano prendesse di mira anche il loro stesso regime. Nei successivi tre anni il Libano e i suoi modi faziosi avrebbero messo alla prova la pazienza dell’America, con i siriani che facevano del loro meglio per riportare il Libano nel suo vecchio stato di cattività.

Ma il Signor Bush aveva ragione a supportare la democrazia a causa delle debilitanti faziosità libanesi. Per decenni, gli arabi politicamente coscienti avevano accusato l’America di tollerare fin troppo i modi autocratici del mondo arabo e la sua rassegnata accettazione del fatto che i modi “dell’Est” erano quelli. Sarebbero tornati suoi loro passi durante la decade di Bush, un capo di stato Americano che aveva scommesso sulla loro libertà.

“Questi ingrati deserti” era il modo in cui Winston Churchill, che sapeva un paio di cose sul Medio Oriente, descriveva queste impervie terre. Questa è una terra che si addolora per la protezione degli stranieri e allo stesso tempo ostenta il suo orrore per la presenza degli estranei.

Come da loro abitudine, i detentori del potere arabo parleranno dietro porte chiuse al loro ospite americano riguardo la minaccia del vicino potere persiano. Ma gli arabi possiedono la democrazia e la ricchezza necessari a bilanciare il potere dei persiani. Se il loro mondo è diventato terreno di battaglia tra la pax americana e l’Iran, questo rappresenta un velata dichiarazione della loro debolezza, e dei difetti del contratto sociale esistente tra i sunniti e gli sciiti del mondo arabo. L’America potrà anche fornire l’ordine che regge la sicurezza degli arabi, ma ci sono questioni di natura politica e culturale che attengono comunque a loro stessi.

Il fatto che George W. Bush fosse alla guida del potere imperiale dominante quando il mondo dell’Islam e degli arabi si trovava nell’occhio del ciclone, soggiogato da tentazioni rovinose, e quando i regimi che in quel momento si trovavano in sella stavano accucciandosi per cercare riparo e il grosso della classe media del mondo arabo era sul punto di opporre uno storico rifiuto a ciò che i loro figli fondamentalisti avevano costruito, era per loro sufficiente. Il suo era un dono di carità morale e politica.

In America come altrove, coloro ai quali quella chiarezza e fermezza di pensiero dava sollievo, si sono avvantaggiati di questa protezione mentre si lamentavano allo stesso tempo del suo zelo e della sua solitudine. Nella stoica accettazione dei pesanti fardelli del dopo Undici Settembre da parte del Presidente Bush c’è stato offerta una prova di come le nazioni si riparino dietro i capi di Stato che si dimostrano in grado di affrontare grosse sfide.  

L’abbiamo deriso in educate ed annoiate compagnie quando George W.  Bush ha parlato di “asse del male” diversi anni fa. Le persone che ora sta visitando però non l’hanno fatto: ed è precisamente per mezzo di queste categorie di bene e male che loro descrivono il mondo e la loro condizione. Il Signor Bush da solo non poteva redimere la moderna cultura degli arabi, e dell’Islam, ma ha fatto quello che doveva quando veramente era necessario. Gli ha dato l’opportunità di reclamare il loro mondo dai fanatici e dai nemici dell’ordine che altrimenti se lo sarebbero certamente preso.

© Wall Street Journal

Traduzione di Andrea Holzer

Fouad Adjami insegna alla John Hopkins University. È l’autore di The foreigner’s Guft: The Americans, the Arabs, and the Iraqis in Iraq (Free Press, 2006), oltre che vincitore del Bradley Prize.