Bush è stato più anticolonialista di Wilson?

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Bush è stato più anticolonialista di Wilson?

03 Agosto 2008

Un saggio racconta l’ascesa e la caduta del movimento wilsoniano, l’America che voleva diffondere il suo modello di libertà nel resto del mondo e c’è riuscita solo a prezzo di scatenare l’odio di nuovi nemici. Erez Manela insegna storia americana alla Harvard University. L’anno scorso ha pubblicato un libro sul presidente Wilson, considerato l’ideatore di un mondo basato sulla cooperazione internazionale: The Wilsonian Moment: Self Determination and the International Origins of Anticolonial Nationalism. La tesi obliqua del saggio è che il bushismo rappresenta l’antitesi del wilsonismo: una presidenza scandita dall’unilateralismo e da rigurgiti imperialistici. Ma a ben vedere ci sono più affinità che divergenze tra i due presidenti americani.    

L’internazionalismo democratico di Wilson era una forma di retorica politica di cui probabilmente fu conscio il presidente stesso, ma questo non significa che sia stato un fenomeno storico passeggero. L’ansia di liberare i popoli dal giogo coloniale, l’autodeterminazione come primo passo verso la democrazia, sono state anche le linee guida della politica estera di Bush. Se mai, il presidente venuto dal Texas è andato oltre il suo predecessore. Wilson infatti non fu mai interessato alla esportazione della democrazia. La celebre frase “il mondo deve offrire sicurezza alla democrazia” non presupponeva l’espansione della libertà in paesi dove la democrazia non era mai esistita. L’obiettivo era quello di difenderla dove esisteva già. 

Bush e i neoconservatori invece hanno ripensato il colonialismo. L’America viene fuori da una rivoluzione anticoloniale e quella idea di libertà ispirò le rivoluzioni del Sud America, il Risorgimento europeo e quello balcanico, la decolonizzazione del XX secolo. Come ha scritto Max Boot in celebre articolo apparso sul Weekly Standard dell’ottobre 2001, “l’Afghanistan e altri paesi turbolenti oggi esigono quel tipo di amministrazione straniera illuminata un tempo assicurata da inglesi sicuri di sé, con casco coloniale e calzoni alla cavallerizzo”. Nonostante il tono provocatorio di Boot, l’America non voleva creare un nuovo impero ma liberare i popoli del Medio Oriente dalla tirannia, conciliando la modernizzazione dell’Islam con i valori democratici e di mercato. Se proprio vogliamo usare la categoria di “imperialismo” dovremmo aggiungere l’aggettivo “morale” anche se l’accostamento è stridente oltre che irrituale. 

Negli ultimi anni l’iniziativa democratica contro i regimi illiberali che pullulano nel mondo (nel 90% il frutto marcio della decolonizzazione) è stata come una fiammata che lentamente si sta spegnendo. Dopo aver affrontato due guerre sanguinose, in Iraq e Afghanistan, gli Usa si rendono conto di non poter reggere da soli lo sforzo bellico, visto che l’Europa e i suoi alleati tradizionali sono poco disposti a seguirli in questa ‘missione civilizzatrice’. Per molti europei gli Usa e l’Occidente in generale non hanno proprio niente da insegnare quanto a civiltà. Ma a ridosso dell’11/9 sembrava che qualcosa stesse davvero cambiando in Medio Oriente. I consulenti più vicini a Bush non si accontentavano della liberazione dell’Iraq, volevano raggiungere ed espugnare il covo del feudalesimo religioso che ha strozzato l’Islam, l’Arabia Saudita. Dividerla in due, occupare i pozzi petroliferi e abbandonare i Saud al loro destino. La stessa sorte sarebbe toccata agli ayatollah iraniani e, in un effetto domino, agli autocrati siriani, ai colonnelli libici e ai generali pakistani.  

Così gli Stati Uniti hanno partecipato alla Quarta Guerra mondiale come l’ha chiamata lo storico Norman Podhoretz. Un conflitto combattuto nei Paesi arabi per rovesciare il fascismo islamico. Questa guerra si combatte ancora, il movimento riformista che attraversa l’Islam continua a disfare le trame del Terrore e della Restaurazione, alcuni dei tiranni arabi sono stati spodestati, altri vengono a più miti consigli – ma l’Occidente sembra sempre più sordo al richiamo di chi combatte per la libertà. Stanca dei suoi morti, timorosa di essere colpita nelle mura di casa, l’America torna a mostrare la sua faccia isolazionista. Il candidato Obama parla a giorni alterni di ritiro (anche se promette di concentrare i suoi sforzi sul fronte afgano), l’Europa invece è già arretrata nei suoi confini da molto tempo.    

Dopo l’11/9, negli Usa e in tutte le nazioni democratiche, ci fu un grande movimento di opinione che spinse il presidente Bush a rompere un decennio di snervante neutralità con il fondamentalismo islamico. Anche il presidente Wilson contava su un forte consenso interno e internazionale quando decise di opporsi alla Germania. La guerra degli U-Boot scatenata dai tedeschi nell’Atlantico venne considerata un atto barbarico, come i kamikaze giapponesi della Seconda Guerra mondiale e i martiri dell’Islam radicale. L’immagine del transatlantico Lusitania che affonda in venti minuti con più di mille civili a bordo somiglia a quella delle Torri Gemelle che crollano nel centro di New York. 

Gli americani reagirono con una esplosione di collera e indignazione allo sfregio tedesco. Secondo lo storico inglese Maldwyn Jones, la Prima Guerra mondiale per gli Usa fu una grande “crociata democratica”. La lotta contro i Taliban, Al Qaeda e Saddam Hussein, è stata vissuta per molto tempo allo stesso modo. Quando Wilson entrò in guerra aveva in mente “una sovranità universale della giustizia esercitata da parte di un’unione di popoli liberi tale da portare pace e sicurezza a tutte le nazioni”. Sono le parole della dichiarazione di guerra alla Germania presentata al Congresso il 2 aprile del 1917. Dieci mesi dopo il presidente elencò i “Quattordici Punti” che prevedevano la risoluzione delle questioni di frontiera tra vincitori e vinti, un nuovo sistema di relazioni internazionali e la creazione della Società delle Nazioni. 

Ai tempi della Conferenza di Parigi, quando le potenze occidentali ridisegnarono la carta mondiale, Wilson era una star. In Europa, ma anche in Asia e in Africa, veniva considerato un “Nuovo Budda” che stava regalando un futuro migliore ai popoli della Terra. L’Articolo X della Società delle Nazioni stabilì i due pilastri del nuovo ordine: l’indipendenza delle nazioni e il principio della intangibilità delle frontiere. Su questa contraddizione si sarebbe costruito il diritto internazionale del Novecento. 

I neoconservatori hanno messo al centro dell’iniziativa democratica il principio dell’indipendenza dei popoli mentre ridiscutevano le frontiere del Medio Oriente con l’ardire di visionari ingegneri democratici. I confini dei Paesi arabi moderni, nella maggior parte dei casi, sono fittizi, il risultato del lavoro di riga e compasso svolto durante la Conferenza di Parigi sulle mappe dei dominatori coloniali. Quelle frontiere secondo i neocon potevano essere ridefinite, spiritualmente e non solo materialmente, se si fosse innescato un movimento di liberazione fatto di donne, studenti e dissidenti, protetti e spinti in avanti dalle baionette dei Marines. La riforma avrebbe finalmente distinto la religione dalla politica e configurato un Nuovo Medio Oriente.       

Com’è finita? Il democratico Wilson si disinteressò delle altre civiltà che considerava inferiori alla democrazia occidentale. Il presidente aveva in mente una Società delle Nazioni bianca e cristiana. Quando gli altri popoli si accorsero del tradimento, la disillusione scatenò un forte senso di rivalsa; si aprì il vaso di pandora delle ideologie radicali, l’anti-imperialismo, il terzomondismo, e più avanti il comunismo e l’islamismo. L’illusione della libertà è la peggiore delle promesse, chiedetelo ai curdi che si ribellarono a Saddam Hussein durante la Guerra del Golfo. Tra mille errori, l’amministrazione Bush ha mantenuto una parte di quelle promesse. Il wilsonismo, l’iniziativa liberale per la democrazia, è come un’onda sismica che attraversa sistematicamente la Storia americana. Un’onda destinata a perdere progressivamente la sua forza man mano che s’infrange sulla spiaggia, a meno che quella spiaggia non si chiami Omaha Beach.

 

Erez Manela, The Wilsonian Moment: Self Determination and the International Origins of Anticolonial Nationalism, Oxford University Press, 2007, pp. 352, $29.95