Bush: “Israele ponga fine all’occupazione dei territori”

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Bush: “Israele ponga fine all’occupazione dei territori”

11 Gennaio 2008

Finisce
oggi la due giorni di George W. Bush in Israele e nei territori palestinesi.
Dopo aver incontrato Olmert e Abu Mazen, con i quali ha discusso del processo
di pace avviato ad Annapolis lo scorso novembre, il presidente degli Stati
Uniti riprenderà il suo tour mediorientale alla volta di Kuwait, Bahrein,
Dubai, Arabia Saudita ed Egitto. Un viaggio articolato e ad alto rischio
sicurezza, definito ieri dalla formazione libanese di Hezbollah “una vergogna
della storia dell’Islam”.

Se i
prossimi incontri saranno principalmente dedicati alla delicata questione
dell’atomica iraniana, nel tentativo di dar vita a un compatto fronte sunnita contro
le ambizioni nucleari di Ahmadinejad, con la due giorni in Palestina Bush ha cercato
invece di sciogliere quei nodi che rendono il traguardo di una pace entro
l’anno – che palestinesi e israeliani hanno promesso nel Maryland, davanti al
mondo – ancora troppo ottimistico, facendo sentire la costante presenza
dell’America nel processo di pace. Di qui l’ottimismo, ostentato forse con
troppa enfasi: “Io credo che succederà, che sarà firmato un trattato di pace
entro la scadenza del mio mandato”. E insieme, annunciata dal consigliere per
la sicurezza nazionale Stephen Hadley, la promessa di
ritornare “almeno una volta” prima di fine mandato.

Nei
colloqui con il premier israeliano Olmert e con il leader dell’Anp Abu Mazen, Bush
ha dunque giocato il ruolo del mediatore: presso gli israeliani si è fatto
portavoce delle istanze palestinesi, chiedendo la fine degli insediamenti in
Cisgiordania, mentre ai palestinesi ha chiesto (a nome degli israeliani) un
maggior impegno sul fronte della sicurezza.

Dopo
aver ribadito la grande amicizia che lega i due paesi, Stati Uniti e Israele,
uniti nella lotta al terrore e contro la proliferazione atomica iraniana, i
colloqui con Olmert si sono presto spinti alla spinosa questione degli
insediamenti in Cisgiordania. La lotta serrata contro le costruzioni israeliane
nel West Bank, in territorio palestinese, è uno dei temi che sta maggiormente a
cuore ad Abu Mazen e al popolo della Cisgiordania. Nei mesi passati, già
Condoleezza Rice aveva suggerito a Israele di mettere fine quanto prima alla
pratica degli insediamenti, per poi procedere a smantellare quelli già
esistenti. Ma sulla questione Israele ha fatto orecchie da mercante: da qui il
richiamo di Bush, che sulla questione sembra avere le idee chiare.

“La
creazione dello stato palestinese è molto in ritardo. Il popolo palestinese la
merita” ha dichiarato Bush alla stampa da un hotel di Gerusalemme, utilizzando
poi la parola “occupazione” per definire gli insediamenti ebraici in Palestina.
Un termine, “occupazione”, utilizzato di rado dall’amministrazione americana:
“Dovrebbe finire l’occupazione iniziata nel 1967” ha detto Bush, senza mezzi
termini, dopo l’incontro di ieri con Abu Mazen e la visita a Betlemme. 

Olmert,
da parte sua, sa di dover imboccare la strada del congelamento degli
insediamenti: ad Annapolis, del resto, si era mostrato conscio della necessità
di “dolorose concessioni”. Ma, come spesso accade, la resistenza in patria è
molto forte. A questo proposito il “Jerusalem Post” ha pubblicato con grande
evidenza l’intervista a un funzionario israeliano (rimasto anonimo) secondo il
quale “vi sono alcune aree, specialmente le aree maggiormente popolate, nelle
quali l’attività d’insediamento non si fermerà”. Tutto ciò, nonostante
“l’impegno a tagliare gli insediamenti”. Un impegno forte sulla carta, dunque,
ma difficile da mantenere.

Sulla
complicata questione dello status di Gerusalemme poi, Bush si è detto “perfettamente
consapevole che trovare una soluzione a questo problema sarà una delle sfide
più difficili sulla via della pace, ma questa è la strada che abbiamo deciso di
percorrere”.

Per
quanto concerne l’incontro con il leader dell’Anp Abu Mazen, Bush ha premuto
molto sulla questione della sicurezza. La richiesta a Fatah è semplice: fermare
i militanti di Hamas, colpevoli degli innumerevoli lanci di razzi Qassam sul
Negev. Se infatti la questione degli insediamenti in Cisgiordania è
fondamentale ai fini del raggiungimento di un accordo definitivo, per Israele
lo è la certezza di “confini sicuri, riconosciuti e difendibili” di fianco a
una Palestina non più minacciosa per la sicurezza nazionale. 

Anche
in questo caso, più facile a dirsi che a farsi. Da quando Hamas ha preso il controllo
della Striscia di Gaza lo scorso giugno, Fatah e Abu Mazen si sono ritrovati
inermi a guardare i razzi lanciati da Gaza a Sderot. Militarmente e
politicamente, Abu Mazen non è in grado di condizionare le decisioni di Hamas:
nella Striscia, infatti, la sua autorità come rappresentante del popolo
palestinese non è neppure riconosciuta. Gli ultimi sondaggi di popolarità lo danno
in calo, mentre Hamas, anche se minimamente, risulta in risalita: di qui la
speranza che l’incontro con Bush, seguito da una conferenza stampa congiunta,
possa dare un tocco di autorevolezza in più al leader dell’Anp. Tuttavia,
se i nodi degli insediamenti, del diritto al ritorno dei profughi e della
suddivisione di Gerusalemme possono essere risolti tra due interlocutori con i
medesimi fini – due popoli per due Stati –, questo risulta francamente
impossibile con l’occupazione di una porzione di territorio palestinese
(fondamentale per lo Stato che verrà) da parte di una frangia estremista e
contraria a qualsiasi trattativa. Ancora oggi, ripartito Bush, nessuno sembra
avere una ricetta convincente per fermare Hamas: nulla può fare Abu Mazen,
nulla ha deciso Israele, impegnato contro i lanci di razzi in raid militari
volti solo a mantenere lo status quo.