Bush l’aveva detto: la guerra al terrorismo è ancora una priorità
25 Giugno 2007
di redazione
La politica Usa in Medio Oriente si è certamente trasformata diventando quasi il contrario di quella che è stata durante l’amministrazione Bush. Per capire come mai dobbiamo definire le sue più immediate priorità. Alcuni indicherebbero comprensibilmente che la priorità numero uno della Casa Bianca è rappresentata dall’Iraq. In che modo gli Usa rispondono alla difficile questione di come tirarsi fuori dal pantano iracheno? Ma questa non è la loro vera priorità, per due ragioni. Primo, il Presidente Bush non vuole ritirare le forze armate Usa dall’Iraq. Si potrebbe magari argomentare sulla saggezza di una tale decisione. L’immagine che viene in mente è quella dell’ossessionato capitano Akab mentre viene trascinato nei fondali marini dalla balena Moby Dick, alla quale lui stesso ha dato la caccia oltre ogni calcolo razionale. Ma non si può, però, argomentare sul fatto che Bush voglia ritirarsi o meno. Infatti è molto probabile che le truppe da combattimento statunitensi rimarranno in Iraq fino all’ultimo giorno di lavoro del Presidente Bush, nel gennaio del 2009. Secondo, la politica statunitense deve tenere conto di un Iran sempre più sicuro di sé e altamente ambizioso che sta tentando di assumere il controllo di quell’area insieme al crescente potere dei gruppi rivoluzionari islamici, compresi i responsabili della stessa insurrezione irachena.
Il problema numero uno della politica estera statunitense è quindi rappresentato da una versione riveduta e corretta della guerra al terrorismo, che è ora diventata la lotta al radicalismo mediorientale, specialmente nelle sue forme islamiste. Dopo l’undici settembre 2001 gli Stati Uniti si sono impegnati a combattere i terroristi. In quel periodo, ciò significava combattere al-Quaeda e i suoi alleati Taliban in Afghanistan. Comunque, battagliare contro al-Qaeda direttamente e vanificare i suoi attacchi terroristici era un compito modesto e certamente non rappresentava una politica mediorientale di ampio respiro. Quindi è saltata fuori l’idea di promuovere la democrazia nel medioriente, come un compito addizionale. E, l’idea che promuovere diritti umani e migliori condizioni di vita oltre che il dominio della legge nelle società mediorientali sia stata vista da molti in occidente – e dai più in Medio Oriente – come una famelica politica imperialista, è davvero molto divertente. Ma lasciamo perdere, questo è materiale per un altro articolo. Per concludere, la politica Usa si è concentrata a combattere in Iraq, lottare contro il terrorismo e provare ad esportare la democrazia. Il fatto è che, quello che è successo su tutti e tre i fronti, ha contribuito a sfocare il contorno di questi stessi problemi.
Molte persone tendono a dimenticare che l’Iraq sta affrontando un tale spargimento di sangue non certo per colpa degli Stati Uniti ma a causa del fatto che i terroristi stanno facendo letteralmente esplodere le persone e sono pronti a distruggere il paese pur di poterlo dominare. Quindi le cose in Iraq non funzionano a causa dell’Iran, dello stesso Iraq e degli insorti. Per quanto concerne la lotta la terrorismo, al-Qaeda è certamente importante in Iraq, ma gli sforzi in tal senso rappresentano solo una porzione del problema, visto che il terrorismo è anche sponsorizzato dall’Iran e dalla Siria, ed è portato avanti da gruppi come Hezbollah, Hamas e la Jihad islamica, oltre ad un certo numero di altri soggetti. Ancora una volta il punto focale del problema diventa l’ambizione degli estremisti mediorientali. In ultimo, la democrazia come politica è stata screditata dal successo dei radicali islamisti in Egitto, in Libano e tra i palestinesi, anche se potremmo aggiungere a questa lista anche l’Iraq e la Turchia in un certo senso.
Questo ci riporta indietro alla nuova priorità della politica Usa: la lotta tra due gruppi, con l’Iran, la Siria e un certo numero di islamisti radicali da un lato e altri gruppi terroristici dall’altro. È questa la definizione delle questioni di politica estera statunitense ed è con un certo sollievo che che tutte queste strane e poco familiari nozioni di promozione della democrazia, lotta al terrorismo e cambiamenti di regime possono essere gettate a mare e rimpiazzate del familiare concetto di contrapposizione fra due blocchi. Si ritorna al convenzionale concetto di guerra, o di guerra fredda, o all’usuale formula degli affari internazionali: blocco A contro blocco B. Grazie per avermi seguito attraverso questa spiegazione di come le cose funzionano nel 2007. Ma ora, come ci si deve comportare a proposito? Si osservano in genere due strategie principali. Una di queste, più che altro promossa da una grande componente della classe media accademico-intellettuale, la sinistra liberale, crede che il conflitto sia una sbaglio, un’incomprensione, e che si può risolvere tramite il dialogo. Ai radicali (islamici) devono essere spiegati i loro veri interessi oppure ricevere l’autorizzazione degli occidentali per comportarsi nella maniera corretta. Le parole d’ordine in questo campo sono sono: tranquillizzare, spiegare e sostenere. Essi guardano al problema non solo come islamofobia ma anche come islamismofobia. Per loro la colpa ricade sempre sugli Stati Uniti, Israele e l’Occidente in generale. Le ragioni di questa presa di posizione includono l’ignoranza, una reazione contro i molti fallimenti dell’amministrazione Bush e un rabbioso odio verso di essa, oltre che la paura di affrontare i fatti, cosa che comporta rischi ed eventuali conflitti; l’odio verso la loro stessa società ed una partigianeria di corto raggio contro coloro i quali sono al potere.
Quello che è successo negli ultimi mesi è che l’amministrazione Bush ha attirato il criticismo del suo elettorato e, in minor misura, altri critici più estremi. Nell’ultimo caso il governo ha attenuato la politica di pressare la Siria e l’Iran attraverso l’isolamento. Ufficiali statunitensi di alto rango si sono incontrati con rappresentanti di entrambi i paesi. Ancora più enfasi, comunque, si pone sull’aiutare i “bravi ragazzi”, quelli che non spalleggiano l’Iran e la Siria, contro i “ragazzacci”. Quindi la politica Usa si vuole allineare con quella egiziana, giordana, saudita e con quella di ogni altro regime arabo. Questo tipo di politica democratica è declassata o morta. E Fatah, a dispetto del suo terrorismo continuato e del suo radicalismo, è vista principalmente come baluardo contro l’Islam radicale. Quindi ora gli aiuti Usa sono da pagare direttamente sul conto dell’Olp, insieme alle armi e all’addestramento per Fatah. Ancora, la politica statunitense tende a fare i conti con gli europei non influendo troppo sull’Iran mentre dimostra nel contempo che sta energicamente perseguendo le negoziazioni israelo-palestinesi. La linea di fondo è che la politica Usa è diventata una politica con una forte connotazione storica, una nuova guerra fredda ma con diversi soggetti, un allineamento ideale di tipo tradizionale con più moderazione contro arabi e musulmani più radicali. L’ironia è che questo approccio, a parte il rifiuto di ritirarsi dall’Iraq, è vicino alle idee dei nemici che Bush si ritrova in casa.
Traduzione di Andrea Holzer