“Cablegate”, la vera storia del soldato che si è venduto a WikiLeaks

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“Cablegate”, la vera storia del soldato che si è venduto a WikiLeaks

30 Novembre 2010

In queste ore ci si chiede quali saranno gli effetti dei dispacci diplomatici pubblicati da WikiLeaks, qualcuno dice nessuna, qualcuno preoccupato pensa al peggio. Ma forse la domanda dovrebbe essere un’altra: come fa mister Assange ad ottenere le sue informazioni? E’ vero, non si tratta di hard quanto di soft intelligence, il Cablegate è un coacervo di opinioni personali, umori, boatos, che in fondo non dovrebbero sorprendere più di tanto vista l’attitudine mascolina della potenza americana, un carattere che l’America deve preservare se vuole restare tale.

Ma chi ha passato a Wikileaks i famosi “cablogrammi”, un termine che pensando alle ultrasofisticate tecnologie di oggi sembra spuntare da un romanzo di spionaggio della Seconda Guerra Mondiale? L’attenzione di alcuni giornali ed agenzie di intelligence, il Telegraph piuttosto che Stratfor, si è concentrata sul 23enne Bradley Manning, analista dell’intelligence militare Usa che attualmente è dietro le sbarre accusato di aver diffuso informazioni che minacciano la sicurezza americana.

Manning è stato descritto come un poveraccio mentalmente confuso dalla sua esperienza in Iraq. I giornali inglesi hanno picchiato duro denunciando il suo senso di frustrazione (cospiratoria), alimentata dalla comunità di nerd informatici che frequentava. Si sono accaniti sulla sua omosessualità. Un remake mezzo Matrix mezzo Milk in cui sarebbe cresciuto e maturato l’antiamericanismo di questo "soldato blu", che salvava su dischetti vergini i “segreti” del Dipartimento di Stato mentre fingeva di scaricare l’ultima hit di Lady Gaga. Per poi diffondere il materiale in Rete finché è arrivato Assange.

Manning aveva accesso al SIPRNet (Secret Protocol Router Network), uno dei sottosistemi informatici riservati del Pentagono utilizzato dalla Net-Centric Diplomacy, a sua volta un’iniziativa di condivisione di informazioni fra militari e agenzie governative e di contractors istituita dopo l’11 Settembre per evitare altri buchi neri nell’intelligence Usa. Si tratta, come abbiamo detto, di una banca dati di soft intelligence, di informazioni che non faranno scoppiare una guerra mondiale, anche se pensare alle feluche più puritane dell’ambasciata Usa che dipingono Berlusconi a dir poco esoticamente (il “wild party”) qualche riflesso sull’opinione pubblica è destinato ad averlo, purtroppo.

Ma il problema è un altro e riguarda la comunità hacker e del freesoftware americana, l’idea, cioè, che ogni informazione debba essere resa pubblica su Internet. Gli accoliti di questa nuova utopia stanno penetrando le menti dei militari in patria, occasionalmente, ma in modo terribilmente pericoloso come è accaduto con Manning. Per non parlare del fatto che l’analista, secondo il Telegraph, sarebbe stato aiutato da qualcuno, un commilitone, un ufficiale, o un gruppo di militari, e questa sarebbe davvero l’ipotesi peggiore, perché dovremmo chiederci chi sono questi uomini e se tra loro c’è qualcuno che vuole influenzare il corso degli eventi, magari per conto di qualche committente nell’ombra.

Siccome siamo un giornale che non insegue le cospirazioni ma cerca di restare ai fatti, la considerazione da fare sulla storia del soldato Manning è un’altra e riguarda più noi stessi che fantomatiche spie o traditori. Noi organi di informazione, creatori di notizie e di personaggi. Manning infatti sembra già condannato, rischia fino a cinquant’anni di carcere. E’ il protagonista sconosciuto di una vicenda che invece darà risalto solo ad Assange, frustrando per l’ennesima volta il sogno del soldatino che voleva cambiare il mondo. Manning guarderà il mondo da dietro le sbarre, mentre il boss di WikiLeaks si gode le prime pagine dei giornali.

Ma provate a chiedervi il motivo per cui un giovane militare americano, solo, stanco della guerra, si prende la briga di sabotare il SIPRNet così per il gusto di farlo, ben sapendo cosa sta rischiando e senza ricevere apparentemente nulla in cambio. Dobbiamo credere alla favoletta del giovane imbevuto di grandi ideali sulla apertura e la democrazia della Rete? O forse occorre analizzare in che modo le informazioni di Manning sono state diffuse prima di arrivare nelle mani di Assange?

Ed è qui che entrano in gioco Adrian Lamo e Kevin Poulsen, hacker il primo, bloggettaro della rivista Wired il secondo, amici dice qualcuno, colleghi secondo la loro versione dei fatti. E’ Lamo a ricevere per primo delle email e poi a chattare con Manning fiutando il colpo grosso. L’hacker capisce che il soldato ha tra le mani materiale che scotta e si spaccia per giornalista (prima scorrettezza) per accreditarsi. In passato dicono che Lamo abbia usato la Sindrome di Asperger – di cui soffre e che fa tanto geek – per avere un quarto d’ora di celebrità sui giornali.

Nel gioco a questo punto entra anche Poulsen, che a differenza di Lamo scrive per una rivista autorevolmente patinata come Wired. Sarà Wired a uscire con i primi articoli, dettagliatissimi, sull’arresto di Manning. Lamo infatti non si è accontentato di manipolare il soldato, facendogli credere, probabilmente, che diffondere i cablogrammi fosse un gesto eroico, ma da un certo momento in poi diventa un informatore della polizia, tradisce la sua fonte e confessa di averlo fatto perché si era accorto della gravità della situazione.

Dunque che ruolo hanno avuto Lamo (e Poulsen?) nel far esplodere tutte le manie, le ansie, e il revancismo di Manning? Prima ancora di arrivare ad Assange, cosa bolle di inquieto e malsano nell’underground informatico americano? E’ possibile dire che ci sono giornali con la passione di Internet che solleticano l’idea del sabotaggio? Il soldato Manning, probabilmente, è colpevole di molte cose. Ma in fondo potrebbe anche essere una vittima dei nuovi sobillatori del web.