Cala il sipario su Marini e sulla legislatura
04 Febbraio 2008
E’ calato il sipario su Franco Marini. E probabilmente pure sulla XV Legislatura. L’ultima giornata di consultazioni è stata decisiva per il presidente del Senato il quale dopo aver registrato la richiesta di elezioni immediate da parte di Gianfranco Fini, prima, e poi di Silvio Berlusconi e la rinnovata disponibilità del leader del Pd, Walter Veltroni, per un governo “che in tre mesi faccia una nuova legge elettorale”, ha deciso di rimettere il mandato nella mani del presidente della Repubblica Napolitano. Una scelta fatta con “rammarico”, come ha precisato lo stesso Marini e legata “all’impossibilità di raggiungere l’obiettivo necessario per il paese di una modifica della legge elettorale” perché “non ho riscontrato l’esistenza di una significativa maggioranza su una precisa ipotesi”. Una precisazione non da poco e che chiarisce quanto il reale motivo del fallimento di Marini non sia stata la voglia della CdL di tornare alle urne. A parte questo il “lupo marsicano” alla fine ha dovuto gettare la spugna anche se per la verità proprio lui all’inizio del suo mandato aveva ammesso di trovarsi dinanzi ad un “impegno gravoso”. Ed ora l’unico scenario plausibile è quello delle elezioni anticipate. Per il momento il Capo dello Stato ha semplicemente preso atto dell’impossibilità di Marini di portare a termine il mandato, ma presumibilmente domani dovrebbe arrivare la decisione di sciogliere il Parlamento. L’unica incognita al momento sembra essere la data delle elezioni e sulla quale Napolitano vuole riflettere. Questo spiegherebbe anche il perché della visita di questa mattina del ministro dell’Interno Giuliano Amato al Colle. Una visita dal sapore tecnico-organizzativo per decidere con calendario alla mano la data più fattibile. La prima, se Napolitano sciogliesse già domani il Parlamento, potrebbe essere il 31 marzo. Mentre le altre due ipotesi al momento al vaglio sarebbero quella del 6 aprile e del 13 aprile. E quest’ultima sembra quella al momento la più accreditata soprattutto nel centrosinistra. Tornando a questa ultima giornata di consultazioni in mattinata era stato per primo Romano Prodi, all’uscita dalla riunione del Pd al loft di Sant’Anastasia, a fotografare la situazione: “Noi incoraggiamo tutti insieme il presidente Marini nel suo tentativo, ma deciderà la posizione di Berlusconi. Certo, finora è stato duramente negativo e continua a dire che vuole elezioni subito”. Ma il primo a ribadire al presidente del Senato la necessità di un immediato ritorno alle urne è stato Gianfranco Fini. All’ex leader della Cisl ha spiegato che “non esistono le condizioni di dar vita ad una maggioranza che sostenga una governo per una nuova legge elettorale”. Un’ipotesi, quella di un esecutivo solo per fare la riforma elettorale, che era stata avanzata dal leader di Rifondazione Comunista Giordano e che Fini ha bocciato seccamente: “I governi nascono sulla condivisione di un programma politico e programma significa governo dell’economia e delle questioni sociali. Non mi risulta che nella Costituzione sia scritto che un governo possa nascere per far fare la riforma della legge elettorale o il referendum”. Al “no” dell’ex ministro degli Esteri poco dopo si è aggiunto quello di Silvio Berlusconi convinto che “che la cosa migliore per affrontare i grandi problemi del Paese sia quello di dare al più presto un governo pienamente legittimato dal voto popolare, che entri subito nel pieno e possa essere operativo”. Da qui la bocciatura di un governo per il referendum che il Cavaliere “considera una inutile, incomprensibile e dannosa perdita di tempo”. Ma Berlusconi si è soffermato anche sul futuro spiegando di essere disponibile al dialogo con il centrosinistra all’indomani del voto e valutando come ipotesi “plausibile” quella di dare la presidenza di una della due camere all’opposizione. Il tutto in “un discorso più ampio di collaborazione”. A Veltroni invece è toccato il compito di rilanciare “l’ipotesi di un governo che in tre mesi, non in trent’anni, faccia una nuova legge elettorale per dare agli italiani la possibilità di scegliere, un intervento su salari e produttività e un intervento per la riforma della politica”. Riforme necessarie per il sindaco di Roma che attacca il centrodestra chiarendo che “uno schieramento di 14 partiti difficilmente può governare il Paese” e “parte delle forze politiche a cui abbiamo rivolto l’appello all’assunzione di responsabilità, ha risposto di no”. Attacchi che però indicano come già sia la partita della campagna elettorale a sinistra. E proprio a sinistra ci sarebbero già le prime frizioni. Nella sinistra radicale lo scontro in atto è per la leadership, un tema sul quale si è già fiondato Fausto Bertinotti che in un’uscita dalla presidenza di Montecitorio vorrebbe occupare quella della “Cosa Rossa”. Un’ipotesi che però non è condivisa da tutti, mentre sembra che sul simbolo ci sarebbe un ampio accordo e cioè non utilizzare i vecchi simboli di partito. Quindi alla prossime elezioni niente falce e martello. Nel Partito Democratico, invece, la tensione riguarda l’impostazione della campagna elettorale. Veltroni ha già precisato che al voto il Pd andrà “con un proprio programma ed una propria identità”. Ma al momento la vera questione è la formazione delle liste. Nella riunione dei vertici del partito seguita all’incontro tra Marini ed il sindaco di Roma sarebbe stato deciso di procedere ad un sistema di scelta collegiale. Scelta che da un lato riduce il potere dello stesso Veltroni, ingabbiandolo, mentre dall’altro fa presagire una lotta all’ultimo sangue tra le diversi anime del Pd per la scelta dei candidati. Cattive notizie che si uniscono alla “certezza” come la chiama la capigruppo Finocchiaro che sarà il governo Prodi a portare il Paese alle urne. Non una bella prospettiva per Veltroni che aveva sperato fino all’ultimo di evitare questa eventualità che certamente lo penalizzerà durante la campagna elettorale. Alla quale sembra già pronto Pierferdinando Casini che nel pomeriggio ha accolto i componenti del Consiglio Nazionale con un appello “ad andare a fare la campagna elettorale”. Udc che sta vivendo un momento di difficoltà interna. Dopo aver dovuto registrare le defezioni di Tabacci e Baccini oggi anche Carlo Giovanardi ha abbandonato il partito per aderire al PdL di Berlusconi. Non una novità, visto che da tempo l’ex ministro aveva espresso le sue simpatie per la nuova creatura politica del Cavaliere. Un’uscita che però rischia, insieme alle altre, di dare il quadro di un partito in grossa difficoltà e che potrebbe penalizzare oltremodo in termini percentuali lo stesso Udc. Intanto sul fronte governativo domani si dovrebbe riunire il Consiglio dei Ministri per la convocazione del referendum che come recita la stessa Costituzione in presenza di elezioni anticipate sarebbe spostato di un anno. Un atto che il portavoce del governo Silvio Sircana ha definito “dovuto”. E probabilmente l’ultimo di questo governo di centrosinistra.